Che il cinema e la politica siano arti (si, entrambe lo sono) affini, coincidenti e mutuamente connesse, lo sappiamo. L’immagine – come racconta molto bene anche Disclaimer, la serie di Cuarón in Fuori Concorso – è un potente strumento di narrazione, un veicolo dai risvolti retorici plasmabili e potenzialmente disparati, talvolta pure contraddittori. È un significante con mille significati, una fonte di appropriazioni più o meno legittime e più o meno legate alle intenzioni originarie annidate dietro a sé.
Questo valore ambiguo e prismatico dell’immagine, però, è anche ciò che necessariamente ha sempre contraddistinto i discorsi intorno a uno dei nomi più divisivi della storia del cinema, quello di Leni Riefenstahl. Una delle registe più importanti del Novecento, soprattutto in un periodo in cui era difficile emergere per una figura femminile in questo settore, ma anche l’arma ideologica più potente del regime nazionalsocialista.
Alla sua controversa memoria è dedicato il documentario Fuori Concorso a Venezia Riefenstahl, diretto da Andres Veiel. Il lavoro di Veiel (e di Stephan Krumbiegel, Olaf Voigtländer, Alfredo Castro al montaggio) è principalmente di stampo archivistico, con una collezione di immagini, video e interviste di repertorio della donna raccolte in una sorta di documentario-inchiesta. Piuttosto scolastico e forse un po’ anacronistico nella forma, riesce comunque a comunicare in modo efficace la sua tesi di fondo: Riefenstahl era al corrente di ciò che avveniva nei lager? La sua era semplice arte, oppure era qualcosa di più, al servizio di qualcosa che prescindeva dalla sua idea di cinema? Il lungometraggio indaga con una certa convinzione la possibile corresponsabilità di Riefenstahl al genocidio perpetrato dai nazisti, e la sua presunta inconsapevolezza delle tragedie da loro commesse, da lei puntualmente ribadita nelle conversazioni con i giornalisti.
Tedesca, giovane e dalle notevoli capacità artistiche, nel 1932 gira (e recita in) La bella maledetta: Hitler lo vede, ne rimane impressionato, decide di incontrarla e da lì nasce una “collaborazione” destinata a segnare l’immaginario del totalitarismo del Terzo Reich. Leni ricambia fin da subito l’ammirazione per il Führer: legge e apprezza il Mein Kampf e rimane abbagliata da uno dei suoi enfatici discorsi alla Nazione. Nel documentario dirà a più riprese di essere stata colpita dalla sua «forza magnetica», da quell’attrazione fatale che in Hitler, secondo lei, c’era già prima di esaltarla con i propri film. In modo quasi inconscio, Riefenstahl elogia continuamente la bellezza adonica e wagneriana della Germania nazista come fossero immanenti, in un tentativo di smarcarsi dall’accusa ricorrente di aver reso nei suoi film così tanto affascinante la retorica nazista.
Un’impronta estetizzante e neoclassica, infatti, domina già il suo film d’esordio, ma con i documentari di propaganda essa si lega favorevolmente all’ideologia del regime, che faceva della purezza una prerogativa esistenziale. Secondo molti, dunque, anche una cronaca come quella delle Olimpiadi del 1936 in Olympia cessa di essere semplice rappresentazione di una regista innamorata della bellezza – che pure era – e diventa appoggio iconico per la creazione di un consenso criminale. Attraverso le sue immagini così affascinanti e curate, Riefenstahl aveva restituito al mondo i codici di una visione illusoria della Germania, che fondava le sue radici nel mito della superiorità della razza e dei corpi scultorei e semidivini dei giovani atleti ariani.
La stoica fermezza della regista nel negare sempre le insinuazioni di aver contribuito alla Shoah, più o meno indirettamente, si scontrano con i materiali ritrovati e messi insieme nel documentario, che scava a fondo nello spinoso passato di Riefenstahl per trovare delle prove della sua colpevolezza. E le prove arrivano: alcuni documenti relativi alla produzione di un suo film evidenzierebbero infatti come non solo sapesse di cosa accadesse al di là della zona d’interesse – per citare un altro film che, come questo, cercava di ragionare sul rimosso e sulla banalità del male – ma, addirittura, una sua indicazione di regia su un set aveva causato direttamente la morte di alcune comparse sinti prelevate da un campo di concentramento, rendendo di fatto anche lei un’omicida.
Se non per una confezione un po’ datata e non del tutto scorrevole, il documentario di Veiel è comunque un’ottima selezione di reperti storici per far venire alla luce una verità sottesa, ed è la massima dimostrazione del valore ambivalente delle immagini: come viene ribadito a inizio film, oltre a potente mezzo mistificatore esse possono elevarsi anche a salda ancora per la memoria, che si oppone alla forza risucchiante dell’oblio e permette di non dimenticare. Bene ricordarlo, ogni tanto.