Tratto dall’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, L’Arminuta (trailer) di Giuseppe Bonito lascia sicuramente il segno all’interno della selezione ufficiale di questa sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Un film che fin dai primi momenti riesce a trasportare lo spettatore nei luoghi dei fatti che racconta e lo fa attraverso il potere delle immagini e non delle parole. Quello che colpisce di questo film infatti è la prevalenza del fare sul dire, dei rumori e dei suoni sui lunghi discorsi ed è però questa la strategia più giusta per comunicare l’essenza della storia che si sviluppa nelle quasi due ore di durata senza mai risultare pesante.
Una chioma rossa, la pelle chiara protetta dalla crema solare e da vestiti pronti per ogni occasione, degli occhi grandi, profondi, il principale mezzo attraverso cui comunicare la paura che si prova a tredici anni e l’inquietudine che si prova a sentirsi scambiata come un pacco. Così appare “l’Arminuta”, la protagonista di questa storia interpretata da Sofia Fiore. Una storia fatta di dualismi: mondo rurale e mondo cittadino, madre vera (Vanessa Scalera) e madre adottiva (Elena Lietti), sorella (Carlotta De Leonardis) e sorellastra, essere bambini ed essere già adulti. È questo il mondo che racconta il film, uno scenario che a pensarci bene non è scomparso da così tanto tempo dal nostro Paese, eternamente diviso a livello economico e sociale. Uno spaccato di realtà in cui lo spettatore si perde grazie alla forza del “non detto” che si concentra sulle espressioni ingenue di chi vorrebbe sperare in qualcosa di diverso, sui mezzi sorrisi abbozzati che in realtà nascondono un oceano di affetto, sulla paura di fare una carezza o di stringere al petto la propria figlia perché non si è semplicemente abituati a farlo, su un uso preponderante di un dialetto verace che fa ridere ma che allo stesso tempo fa anche commuovere.
Bonito prende come riferimento la famiglia d’origine di questa ragazza, che sembra uscita da un dipinto fiammingo, per andare a cristallizzare e ad esplorare una porzione ancestrale di realtà che sprofonda spesso nella disperazione e nella rassegnazione ma che sa godersi quei piccoli momenti di gioia che arrivano da un momento all’altro e per farlo il regista sceglie una tecnica che potrebbe quasi sfociare nel citazionismo pittorico. Quei pasti consumati in sette a fatica che sembrano richiamare I mangiatori di patate di Van Gogh, i volti di un padre e di una madre segnati dal lavoro che richiamano la semplicità e la verità dei personaggi caravaggeschi. La stessa verità che i personaggi assorbono dalla natura che li circonda, una natura spesse volte arida e matrigna ma che insegna ed è grazie a quegli insegnamenti, impartiti anche con dolore, che si può affrontare l’altro mondo: quel mondo che si è dimenticato le origini, l’odore della terra, il sacrificio che porta alla sopravvivenza del corpo e dell’anima.
Vincenzo, il figlio più grande, ci ha provato ad evadere ma non ci è riuscito, l’Arminuta ci ha provato a ritornare alla sua vita di prima per poi scoprire in realtà che quella vita in cui si sentiva come un alieno era quella che le apparteneva davvero.