Renato Pozzetto si racconta dopo il Nastro d’Argento

Renato Pozzetto si racconta a DassCinemag

Lei mi parla ancora è l’ultimo film di Pupi Avati, il cui protagonista è Renato Pozzetto, al fianco di Stefania Sandrelli. Questo ruolo è valso all’attore il Nastro d’Argento e la candidatura ai David di Donatello. Per l’occasione ripercorre con DassCinemag le tappe più importanti della sua carriera.

È tornato sul set con il film Lei mi parla ancora trasmesso su Sky agli inizi di quest’anno. Mi parli un po’ di questa sua esperienza con Pupi Avati.

MI ha proposto questa parte che era insolita per me, perché è un film drammatico. E ha fatto di tutto perché io dicessi di sì… il tutto nell’arco di due giorni. Mi ha chiamato una mattina e già nel pomeriggio voleva incontrarmi. <<No, lasciami leggere il copione prima!>> ho risposto. Lo ha inoltrato ai ragazzi del mio management che me lo hanno stampato, e non appena l’ho avuto tra le mani ho pensato che mi avessero segnato la parte sbagliata! Invece era quella giusta, e facendo i miei esami di coscienza mi sono detto <<Sì, questo è un ruolo che posso recitare>>. Qualche giorno dopo Avati è venuto a Milano, e davanti a un piatto di spaghetti gli ho dato la mia adesione. Lui ha condiviso i miei punti di vista sul ruolo e ho apprezzato ancor di più.

Lei è ancora oggi uno dei comici italiani più seguiti nei passaggi televisivi e più visualizzati su internet. Mi parli un po’ della sua “battaglia”.

Io ho fatto le mie battaglie per cercare di portare il nostro modo di raccontare, per il quale i giovani si sono innamorati di noi. Erano gli anni sessanta, quelli del grande cabaret che da lì a poco si sarebbe imposto in tutta la penisola. Il cabaret, come penso che lei sappia, è nato in quegli anni a Milano. Solo dopo si è diffuso nel resto d’Italia. E per “nostro modo di raccontare” intendo quello della mia generazione e dei miei maestri. Mi riferisco a Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, c’era anche Dario Fo che in quegli anni assisteva alle prove, dandoci ottimi consigli. Il cabaret è stato il fulcro da cui sono nati molti comici, in seguito divenuti popolari grazie alla televisione e, successivamente, al cinema. Sin dal mio debutto cinematografico, avvenuto nel 1974, ho cercato di imporre quella mia comicità surreale. Agli inizi il pubblico non era prontissimo, poi è andata meglio.

Come mai nel 1996 ha diradato l’attività cinematografica, dopo anni di superlavoro?

Perché le cose stavano cambiando. Ci vuole un “ascolto” più che sufficiente per far sì che un attore faccia molti film all’anno. Ma erano anche le cose che mi proponevano a non convincermi più. Per esempio, l’ennesimo episodio de Le comiche con Villaggio. Dato il successo dei primi tre, volevano fare anche il quarto, il quinto… Dopo il terzo dissi basta.

Ne approfitto per chiederle qualcosa in più su Paolo Villaggio. Prima di imboccare la fortunata serie de Le comiche eravate già amici?

Certo, ci siamo conosciuti nel 1968, quando ha debuttato, come me, nella trasmissione Quelli della domenica. Io e Cochi Ponzoni eravamo stati invitati perché gli autori venivano spesso a vederci in cabaret.

Infatti avete in comune l’esordio televisivo.

Esatto. Ci avevano proposto di prendere parte a una delle sei puntate del programma. Dato il successo della prima abbiamo preso parte anche alle altre sei, dopodiché ne abbiamo fatte tante altre anche nella stagione successiva. A quei tempi non c’erano gli indici di gradimento, ma le telefonate da Roma, grazie alle quali capivamo se la trasmissione aveva ottenuto successo.

Conferma che è falsa la notizia che inizialmente il primo film di Fantozzi sia stato offerto a lei?

Assolutamente sì. Ma anche se me lo avessero proposto non penso lo avrei accettato, a parte il fatto che ero in coppia con Cochi. Io e Villaggio ci stimavamo molto, come ripeto, ma Fantozzi era un personaggio scritto da lui, collaudato da lui, e solo lui avrebbe potuto interpretarlo sullo schermo. Con Paolo abbiamo fatto parecchi film dove recitavamo in episodi diversi però, non avevamo le stesse scene. Solo per Le comiche abbiamo finalmente recitato assieme.

In quelli richiamate molto Laurel & Hardy.

Sì, ma erano film pensati molto più sullo stile di Villaggio, sui tempi comici fantozziani (le cadute, i costumi, ecc.). Per me erano delle “novità”, non c’era molto di mio. Il modo di lavorare di Paolo mi divertiva, questo sì. Non improvvisavamo molto, era tutto stabilito prima, se durante le prove veniva fuori qualcosa di divertente la si teneva, ma nel rispetto di quello che veniva stabilito. Il problema di quei film è che c’era troppo Fantozzi e poco Pozzetto, era un vortice di gag da comiche americane più adatte alla fisicità di Villaggio. Il pubblico ha apprezzato, non a caso ci hanno proposto anche il secondo, e poi il terzo. Ma già il terzo era così così quindi, come ho detto prima, alla richiesta del quarto ho dato lo “stop”. Sa come sono le saghe, quando hanno successo rischiano di diventare infinite!

Di tutti i suoi film, a quali è più legato?

Ma sai, non è facile rispondere a questo, anche perché a ogni film sei legato per un motivo ben preciso, a meno che tu non ne abbia fatto qualcuno per amicizia, o perché il produttore ti abbia messo all’angolo. Io ho fatto sessantatré film (anche se qualcuno me ne ha contati di più), ma tutti per un motivo o per un qualcosa di diverso. Mi proponevano moltissimi film, non ho fatto ovviamente tutto quello che mi hanno proposto, qualcuno l’ho rifiutato anche. Ma non ho rimpianti.

Di recente ha detto che lei non rivede mai i suoi film. Perché?

Non lo faccio di proposito in realtà. Spesso perché non ho l’abitudine di avere l’appuntamento con la messa in onda TV, oppure perché non ho i dvd. Se mi capita li rivedo anche con piacere, ma preferisco più recitarli che riguardarli.

Quali sono i suoi miti del cinema comico?

Totò su tutti. Dietro di lui c’è tutto il teatro napoletano, certe creazioni sono state illuminanti. Ma, come ripeto, ai tempi della gavetta i miei maestri sono stati prevalentemente Jannacci e Gaber, ma anche Lino Toffolo e Felice Andreasi. Con loro si condivideva un capillare scambio di idee.

Mi sarebbe piaciuto vederla recitare accanto a Benigni.

Eh, purtroppo non è capitato. Per la verità ci siamo frequentati in alcune occasioni, ma non si è mai parlato di un film assieme.

Dei comici degli ultimi anni lei apprezzava molto I soliti idioti.

Sì, perché erano espressione di una semplicità che oggi si è un po’ persa e che sta alla base del cabaret, che spesso è composto da una sedia, una chitarra e una pedana alta non più di trenta centimetri con la gente accalcata, seduta per terra intenta a seguirti. Era un’espressione miracolosa. Per l’attore essere solo con le proprie armi è una prova molto importante, e questo vale anche se sei in televisione, non per forza in uno spazio teatrale.

Le manca il cabaret?

In realtà no, anche perché proprio ora sono alle prese con la riapertura del Teatro Lirico di Milano, restaurato dopo vent’anni di lavori. E speriamo che sia la volta buona anche per inaugurare questo ritorno alla normalità che tutti ci auguriamo.

Progetti futuri?

Ora che ho ritirato il Nastro d’Argento per il film di Avati, andrò al Clip, il Concorso Lirico Internazionale di Portofino che si terrà dal 20 al 26 luglio, in una cornice bellissima, con cantanti di tutto il mondo che verranno ascoltati da una giuria di addetti ai lavori dei maggiori teatri lirici. Nei giorni precedenti sentiremo i cantanti scaldarsi la voce nei vicoli di Portofino, per poi vederli esibirsi in una saletta davanti alla giuria, e i più quotati arriveranno alla finale in piazzetta. Sono tutti bravissimi i cantanti che vengono da tutti gli angoli del mondo, e mi piacerà vederli coccolati dagli abitanti che li ospiteranno a pranzo e cena nelle loro case!

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