Valentyn Vasyanovych nel 2019 si è presentato al Lido di Venezia con Atlantis, un film struggente sulla necessità della riappropriazione della propria esistenza, attraversata dallo stress post-traumatico di cui è vittima un soldato reduce da una guerra immaginaria del prossimo futuro tra Ucraina e Russia. E dopo essersi aggiudicato in quell’occasione, meritatamente, il premio come Miglior film della sezione Orizzonti, il regista ucraino (riduttivo, perché anche sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore delle proprie opere) torna a esplorare con Reflection zone tematiche liminali a quelle del precedente Atlantis.
Stavolta però siamo nella selezione del Concorso della 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, al fianco del Serhiy di Roman Lutskyi, medico militare durante gli scontri armati avvenuti nel clima di tensione degli ultimi anni che ha contraddistinto i rapporti tra Ucraina e Russia. Il cinema di Vasyanovych non è concepito per avvalersi di compromessi e per questo si fa ancora duro, spigoloso e protratto nell’esporre il dolore e la frustrazione attraverso l’utilizzo di prolungatissimi piani sequenza che fanno da anticamera del mondo interiore dei suoi protagonisti. La messa in scena, impeccabile, millimetrica, è studiata per decantare il malessere in vece del dialogo, per mutare (quando lo fa) sotto gli occhi degli spettatori come atto di dissertazione vero e proprio.
Rispetto ad Atlantis che approfondiva il dopo di un evento traumatico e spartiacque per la vita di una persona, i cui resti sono disseminati tra le macerie umane e artificiali del conflitto, Reflection si pone quasi come una sorta di prequel del film precedente e nella prima delle due ore di girato si cala negli inferi di una guerra ritratta con una costruzione degli ambienti che hanno un qualcosa di biblico, di girone dantesco sanguigno e spietato. Qui Vasyanovych si accosta pericolosamente alla pornografia di un dolore crudo e non risparmiato, desideroso di mostrare nella consapevolezza di non poter privare nulla allo schermo e capace di fermarsi un attimo prima del punto di non ritorno e dell’insopportabilità.
Cambia poi registro e scarta nella riflessione cinerea, dalle sfumature limbiche nelle quali la parabola spettrale di Serhiy trova il punto di contatto più prossimo a quella già analizzata in Atlantis. La sensazione è inevitabilmente quella di déjà vu, con l’opera di disvelamento che si affida al tentativo di riavvicinarsi all’affettività sempre utilizzando il tramite degli spazi e dei fondali come punto comunicativo e di contatto tra i corpi e le anime.
È generalmente odioso approcciarsi all’analisi di un film solo con il confronto, è vero, ma Reflection tira fuori questa chiave di lettura perché volenteroso (troppo) di porsi in soluzione di continuità con il lavoro che l’ha preceduto, che tra l’altro fa utilizzo migliore degli strumenti stilistici sui quali Vasyanovych cala tutto il peso di un non-narrare. In primis proprio della messa in scena, che qui si rivela in grado di comunicare molto meno di quanto vorrebbe e dovrebbe, lasciando dinanzi alla camera fissa quadri di immensa bellezza ma freddi, asettici, privi della vena pulsante che attraversava Atlantis orizzontalmente. Lì bastavano due scene in particolare a gridare un intero cosmo di sentimenti: quella delle sagome da tiro stagliate sul muro in penombra come fantasmi dal passato e il caldissimo rapporto sessuale consumato in un furgoncino adibito a raccogliere i resti di soldati dimenticati.
Reflection manca l’appuntamento con questo tipo di iconografia, nonostante ci provi dal minuto uno, uscendone fuori molto pallido e molto più silenzioso di quanto è chiamato a gridare lo strazio nel quale è immersa l’anima lacerata di Serhiy.