Una macchina sfreccia sotto una pioggia torrenziale. Stacco: un anziano contadino si alza dal proprio e letto e si prepara ad affrontare l’ennesima giornata di lavoro. Alcune panoramiche e dettagli svelano gli ambienti e i protagonisti di questo prologo: nella macchina una ragazza, ancora bagnata dalla pioggia, stringe nelle mani un paio di scarpe rosse; il contadino si alza lentamente, già stanco, ha il braccio sinistro amputato. Tutti e due guardano altrove impassibili, fuori campo, come se cercassero sempre altro, in silenzio. Sono padre, Tacho, e figlia, Rosita. Il primo vive in campagna, la seconda in città. Presto la ragazza morirà, in circostanze misteriose, e il padre verrà convocato dalla polizia per recuperare il corpo e riportarlo a casa, conservato a Città del Messico.
Carlos Eichelmann Kaiser non tarda a mostrarci nel prologo del suo esordio al lungometraggio Red Shoes (trailer), presentato a Venezia nella sezione Orizzonti Extra, lo stile con cui ha scelto di raccontarci questa storia di redenzione e denuncia. Il passo è contemplativo, le battute rasentano l’essenziale, la macchina da presa si sofferma continuamente sul nostro protagonista – interpretato da Eustacio Acacio, non professionista. Le rughe sul suo volto raccontano subito mille storie, rappresentano il tempo trascorso tra i campi, la conseguente fatica impiegata.
La morte di Rosita ha scosso la sua esistenza: è, infatti, costretto a cedere gli ultimi beni per raggiungere un posto da lui lontano anni luce, contaminato; il suo corpo appartiene alle pianure aride della campagna (la lunghissima dissolvenza incrociata che lega il suo volto al paesaggio rurale; il suo sguardo rivolto all’indietro quando si appresta a partire per la capitale). Ma qualcosa lo spinge a proseguire a testa bassa, a sopportare tutti gli eventi che caratterizzeranno il suo viaggio. Eichelmann Kaiser lascia trasparire attraverso i silenzi la presenza di un non detto, un passato forgiato dal dolore che emergerà con lo scorrere dei minuti, col sopraggiungere di un’immagine chiave – Rosita che fugge nel deserto in piena notte (un sogno o un flashback?) – che tornerà in più occasioni.
Ad attendere Tacho a Città del Messico non vi sarà solo l’incontro con il corpo esanime di sua figlia, bensì la scoperta di un mondo lontano, quello delle metropoli. Un mondo dove imperano le mascherine, dove la sua solitudine è ancora più evidente. Red Shoes gioca per differenze e contrasti: si concede campi lunghi e lunghissimi nella prima parte, ambientata nella dispersa Salaverna; stringe progressivamente la visuale e accentua l’utilizzo del teleobiettivo per schiacciare il suo protagonista tra le masse nella seconda parte.
Nessuno, dicevamo, sembra voler aiutare il nostro protagonista, che non può far altro che provare a capire dove andare. Ma da questa sorta di caos emergerà Damiana, una giovane prostituta interpretata da Natalia Solián, che guiderà Tacho, per la sua notevole somiglianza con qualcuno a lei caro, verso la centrale di polizia. Perché questo gesto? Di nuovo, Kaiser precede per non detti e lascia che il tempo aiuti e faccia crescere il rapporto tra i due protagonisti.
Nonostante ciò, e nonostante un ultimo atto rivelatorio e pienamente convincente, Red Shoes però pecca di solidità nella sua struttura. Se da un lato rivelare tutto attraverso un lunghissimo dialogo che precede il finale (bravissimi gli attori e notevole la scelta registica di mettere a fuoco solamente la figura di Damiana) aiuti a comprendere le scelte compiute da Kaiser e gli sceneggiatori – José Francisco González Garcia e Adriana Gonzáles Del Valle -, allo stesso tempo il film non concede altrettanta importanza alla psicologia di un personaggio così sfaccettato, all’apparenza, come quello di Damiana.
Di questo titolo ci resterà comunque l’ottima fotografia di Serguei Saldìvar Tanaka, capace di adattarsi sia agli spazi aperti della campagna che a quelli della capitale, l’emblematico volto di Tacho e alcune sequenze di grande cinema come il sopracitato dialogo dell’ultimo atto.