Con Red Sea Diving (trovate qui il trailer), il colosso del videointrattenimento Netflix propone questa volta un film politico-avventuroso ispirato agli eventi degli anni ‘80 in Etiopia e Sudan che hanno visto l’esodo di massa delle comunità ebree di quei luoghi verso Gerusalemme. Onestamente, anche se probabilmente alla fine della lettura non sembrerà così, è un film che scorre abbastanza tranquillamente e piacevolmente se visto a casa, adatto alla visione su tv che non fa sentire la mancanza della sala. Insomma, nessuna critica al dispositivo questa volta, ma sul film in sé per sé qualcosa da dire c’è eccome.
Immediatamente sembra che il regista Gideon Raff metta il suo punto di vista al servizio di quello che sembra essere il messaggio a senso unico del film: bisogna fare di tutto per salvare i propri fratelli in difficoltà. Questo pensiero, decisamente condivisibile, col passare dei minuti cade però nel dimenticatoio, diventando così non abbastanza solido e convincente per la restante durata del film. Sembrerebbe infatti che a livello narrativo ed ideologico ci sia il tentativo di puntare in alto, ma il risultato finale, dopo ben 130 minuti, risulta non poco distante da questa idea di partenza. Si arriva ad un punto tale che allo spettatore sembra restare soltanto da chiedersi se effettivamente questa premessa sia stata mantenuta o se forse sia il caso di ripensare l’intero prodotto utilizzando una nuova chiave di lettura, decisamente meno piacevole, ovvero un ripensamento della pellicola in termini più propagandistici che di aiuti umanitari.
Urge però una giustificazione a questa interpretazione, andiamo dunque con ordine. La trama racconta le vicende degli ebrei etiopi costretti a scappare dalla loro terra e cercare rifugio ad Israele passando attraverso il Sudan. Per fare ciò vengono aiutati dal Mossad, i servizi segreti israeliani, che acquistano un hotel in Sudan, il Red Sea Diving Resort, come copertura per farli fuggire via mare verso Israele. Da chi scappano in Etiopia e quali sono le motivazioni degli inseguitori non ci viene minimamente accennato, o meglio ci viene detto tutto e al contempo niente dal primo cartello che con spari in sottofondo recita: “Per migliaia di anni gli ebrei etiopi desiderarono emigrare a Gerusalemme, iniziò così una guerra civile per realizzare questo sogno”. Diciamo che potevano sforzarsi di contestualizzare un po’ di più.
Siamo subito immersi nell’azione già dalle prime inquadrature senza sapere nulla se non che questo gruppetto di ebrei di colore cerca di scappare da alcuni oppressori e viene aiutato a farlo da due ebrei bianchi che li conducono ad un campo profughi che sembra essere sicuro. In tutto ciò assistiamo al coraggioso ed eroico salvataggio di un bambino da parte del protagonista Ari, interpretato da Chris Evans. Questo evento dovrebbe servire a mettere in luce tutto l’eroismo di questo personaggio e farci capire che è pronto a rischiare la sua vita per gli altri. Nonostante nelle prime scene questo sembri appunto spinto da un sentimento di fraternità, col passare dei minuti si perde questa sensazione e la sua forza motrice all’interno dello scorrere degli eventi sembra diventare un bisogno personale di eroismo e soddisfazione, al limite dell’autocompiacimento. Ciò che lo spinge ad agire sembra mancare di coerenza con l’ipotetico senso generale verso cui sembra si voglia direzionare lo spettatore. Per tutto il film viene mantenuto un forte distacco dalla comunità africana in fuga con cui gli israeliani si approcciano, non venendo quasi mai interpellati e l’unico tra questi a cui viene data una voce è Kebede, interpretato da Michael Kenneth Williams, al quale però vengono affidate battute di infimo spessore e molto ripetitive. Insomma, parlando onestamente, il tutto sembra essere una sorta di storiella eroica in cui vige unicamente il punto di vista dell’eroe bianco israeliano in soccorso del fratello oppresso di colore, del quale però sembra solo servire il fatto che sia in difficoltà. Dunque non è il protagonista che cambia il suo modo d’essere, ma è il contenuto e la linea guida del film a cambiare, favorendo una lettura errata delle azioni del protagonista.
Si sente la ricerca registica del riconoscimento dello spettatore all’interno di un personaggio che però non sembra mai essere in vera difficoltà. Infatti, per tutto il film, sembra già deciso che ai protagonisti soccorritori non debba succedere nulla di male. Ai loro fratelli africani che devono fronteggiare enormi ostacoli anche a costo della vita, tuttavia, sono riservati soltanto una o due brevi frammenti in tutta la durata del film, sui quali non sembra soffermarsi l’attenzione registica, così da evitare di mostrare gli eventi reali vissuti da quei poveracci all’interno dei campi profughi. La storia si concentra, invece, unicamente sulle gesta degli aiuti da parte dello stato israeliano e su come quest’ultimo sia stato “in grado di fronteggiare la questione”. Insomma si può definire evidente l’intento propagandistico, inteso in senso pubblicitario, nonostante si cerchi di velarlo con gli eventi di soccorso verso coloro che sono costretti ad emigrare. Questa sensazione viene amplificata nella mente dello spettatore dal penultimo cartello del film che pienamente conferma tutto ciò dopo il modo in cui sono stati trattati gli eventi nel film; questo cita: “Decine di migliaia di profughi Etiopi sono stati fatti scappare con l’aiuto della marina e della aviazione di Israele”.
Infine, a riconferma che questo Red Sea Diving avrebbe potuto raccontare la storia utilizzando anche il punto di vista degli africani, non unicamente il loro, ma quantomeno non relegandoli al ruolo di trofeo portato a casa, e dando loro un po’ di vita, si presta l’ultimo cartello che risulta imbarazzante per la mancanza di contestualizzazione o quantomeno di impegno. Riportarlo è d’obbligo: “Ad oggi ci sono più di 65 milioni di profughi sparsi in tutto il mondo”. Punto. Fine. Allo spettatore resta soltanto da capire se è l’ultimo sforzo per deviare l’attenzione dal “velato” autocompiacimento o se è un tentativo vero di porre lo spettatore davanti ad un problema mondiale, decisamente attuale, col quale però il film non ha creato alcuna empatia col pubblico poiché troppo concentrato sui risultati ottenuti dal Mossad e poco sui migranti stessi.