Con Red Post on Escher Street , al 18° Asian Film Festival di Roma, il regista Sion Sono realizza un film provocatorio, irriverente e contaminante sulla cultura pop giapponese e sugli schemi di funzionamento sociale del sol levante. Il tutto parte da un bando di recitazione per la realizzazione di un film di un immaginario autore giapponese ambito dai festival occidentali che porta il cognome impegnativo di Kobayashi (come il gigante del cinema giapponese Masaki) ed è interpretato da un promettende Tatsuhiro Yamaoka, al suo secondo film, una pura figura speculare del regista, che deve convivere con i suoi spettri, le sue paure e la sua fragilità interiore mentre cerca di difendersi dai fan e dalle aspettative.
Il vero ostacolo del regista è però un produttore intimidto impersonato dall’iconico caratterista Suwa Tarô di Battle royale, Departures e Dark Water sottomesso a un finanziatore che sembra in tutto e per tutto uno yakuza vecchia scuola interpretato dall’immenso Watanabe Tentsu di Hana-bi e Sonatine, nonchè doppiatore di fiducia di Hayao Myiazaki.
Intorno alle tradizionali cassette rosse per le lettere, ormai quasi in disuso in Giappone, si snoda la trama che apre le porte a un variopinto dedalo di personaggi femminili con famiglie disfunzinali e traumi irrisolti che fa da vera base strutturale del racconto. Così seguiamo equamente una miriade di figure femminili apparentemente minori che compongono in realtà il mandala del film, snodandosi in piccole storie frammentarie che si intersecano e si scontrano fra loro. Tra i volti più iconici femminili meritano di essere citata la diva Mala Morgan, amata in Giappone per essere stata la principessa della serie pop di successo Ultraman e figura iconica in occidente per il videogame Death Stranding, che qui interpreta una figura femminile misteriosa e determinante per lo sviluppo del racconto. Fra gli altri volti femminili della storia spicca anche la sempre brava Mitsuru Fukikoshi, volto ricorrente dei film di Sion Sono come Coldfish e Love exposure.
Le eco dei film precedenti del regista si sentono tutti e se da una parte tornano il tema della morte della famiglia già visto nei visionari Strange circus e Noriko’s Diner table, l’autore ripropone anche i temi di metacinema già sperimentati in Why don’t you play in hell ed Antiporno. La caratteristica peculiare del film è che pur riportando i temi già trattati in precedenza il regista alleggerisce il carico drammatico dei personaggi creando una curiosa commedia che sembra ammiccare alla condizione sociale dell’Asia moderna.
Nel film troviamo i problemi di regolamentazione sociale del costume moderno giapponese e al tempo stesso una visione chiara e tonda della problematica di Hong Kong citata esplicitamente da una voce off proveniente diegeticamente da una radio. La repressione del cittadino passa attraverso piccoli ostacoli apparentemente leggeri ma che rimandano a chiari messaggi provocatori con l’autore che sembra divertirsi a invitare le eterne comparse della società giapponese e forse hongkonghese a ribellarsi ai propri ruoli per generare una rivolta anarchica e colorata.
Sembra che la’utore inviti riscrivere le regole come se esse fossero la sceneggiatura di un film collettivo che può permettersi una regia solo se essa stessa è libera da condizionamenti ed aspettative della sua società e del suo pubblico. Forse Red Post on Escher Street non potrà funzionare in termini industriali e la sua lunghezza può stancare lo spettatore, ma il messaggio nascosto fra le righe della storia sembra davvero essere un inno alla libertà sociale e artistica di tutti noi eterne comparse di un mondo diretto da altri.