L’esperienza festivaliera di Pesaro è probabilmente un unicum e questa quarta giornata della cinquantanovesima edizione ne è l’ennesima riprova. La proposta della sala grande del Teatro Sperimentale, principale tappa e locus amoenus del cinefilo radicale, si apre alle 15 con una rassegna di cortometraggi provenienti da varie scuole d’animazione. I film risentono nella parte contenutistica risentendo della loro evidente origine (tutti compiti di formazione a puro scopo esercitativo), ma ciò non significa che gli autori non stupiscono. Le varie tecniche diversificate tra gli autori hanno carattere e generano inevitabilmente un interesse agli appassionati. Chi ancorato al vintage delle tecniche più classiche, chi si cimenta con la computer grafica; quasi nessuno ha davvero qualcosa da dire, ma tutti sanno molto bene come dirlo.
Tra le proposte mi sento di menzionare Abbandono di Ludovico Mossa e Laura Riccobono che in tre minuti ci mostrano un rapporto di coppia tormentato dalla distanza che separa i due amanti, i quali combattono le sfide quotidiane attraverso una partita di scacchi surreale, dove i pezzi prendono forme e nuove funzionalità inaspettate. Il bianco e nero intrigante ed il movimento sinestetico scavano nella nostra memoria emotiva non lasciandoci fuggire dall’esperienza personale, due autori promettenti da tenere eventualmente in considerazione in caso di nuovi progetti.
Prima di passare all’unico film in concorso del giorno continuiamo questo viaggio nell’animazione con i lavori di Igor Imhoff, continuiamo con una chiara visione autoriale formata. La versatilità dell’autore è messa in mostra dalle sue capacità formali, in quanto sviluppatore di videogiochi oltre che artista digitale riesce a creare una commistione di stili impressionante. Su un livello contenutistico invece ragioniamo su un aspetto pittorico, una sorta di Escher post-moderno mette in mostra suggestive metamorfosi che indagano il passato, ci dialogano continuamente.
Creature fatte di 0 e 1 si manifestano ripercorrendo la storia delle arti visive dal principio, pitture rupestri dai toni troneggianti ci conducono fuori dalla caverna di Platone, verso l’ignoto, verso una miscela di orrore e meraviglia che non è la realtà (come nel mito) bensì la neo-realtà, direzione transumana di innesti “troneggianti. Con i disegni dei nostri antenati che diventano vivi, ci si apre un mondo nuovo di possibilità ragionate di come parlare con la storia. Il suono lungimirante dei Kraftwerk, di quando cantavano The robots, risulta ormai non solo contemporaneo ma probabilmente, inevitabilmente superato. Forse iniziamo a capire il tempo non lineare, forse siamo più vicini all’Ubermensch nietzschiano di quanto pensiamo. Tra le opere in mostra quella più stupefacente è Planets, un’avventura in piano sequenza che toglie il fiato per la convivenza naturale di fluidità e imponenza.
Ora che abbiamo fatto i conti con il futuro torniamo sulla terra, torniamo alla realtà, a quella più cruda e spiazzante. Broken View di Hannes Verhoustraete è un documentario che ripercorre le vicende del colonialismo belga e di come un fattore determinante sia stato proprio lo sfruttamento del mezzo cinematografico (e dei suoi antecessori) per plasmare le menti labili di chi ancora non aveva ancora potuto assistere allo sviluppo tecnologico. Ma come rendere un documentario artisticamente valido senza privarlo della sua funzione utilitaria primaria, ovvero l’informazione? Forse la sfida più difficile per chi si interfaccia a questo tipo di comunicazione. L’idea del regista belga è geniale. Mentre ci narra con la sua voce calma i vari studi antropologici e i fatti che hanno segnato questa tragedia, l’autore costruisce vari strati interpretativi, una torta nuziale in pellicola.
In superficie il più chiaro, la narrazione storica. I fatti narrati a voce e arricchiti da immagini di repertorio e inedite riescono a delinearsi con grande chiarezza, senza sbavature. Ma è proprio qui, in questa pulizia generale, che si scopre il secondo strato. Se la chiarezza è indubbiamente uno dei pregi di questo film è anche grazie alla voce di Verhoustraete che impersonifica un imbonitore da lanterna magica 2.0. Chi non conosce ciò che si sta raccontando si rende lentamente consapevole dell’effetto prorompente dell’audiovisivo sulla mente. Il film mette in atto la tesi che sta enunciando sulle possibilità di sfruttamento improprio del mezzo con grande metodo. Ma non finisce qua. Terzo strato, il più profondo, nascosto in piena vista; una linea parallela si disegna dal secondo zero. Mentre tutta la tesi viene esposta, una appassionata lettera d’amore viene scritta: quella per il mezzo stesso. La storia del cinema prende forma, eppure ci sta parlando d’altro. Il puro godimento intellettuale di questa operazione dall’intelligenza spiccata non può lasciare indifferenti.