#Venezia81: Beetlejuice Beetlejuice, la recensione del film di Tim Burton

Beetlejuice Beetlejuice, la recensione del film di Tim Burton

Lo spiritello preferito di tutti è tornato dall’oltretomba, e non ha intenzione di risparmiarsi nessuna scorrettezza per ottenere ciò che vuole. Con Beetlejuice Beetlejuice (trailer) si torna finalmente a volare sopra le casette di Wind River, trentacinque anni dopo la prima volta. Il film di Tim Burton è di certo tra i più attesi di fine anno, nonché un progetto su cui moltissimi ripongono numerose aspettative e altrettanti dubbi. Per comprendere dove sta la grandezza di questo sequel, è necessario riprendere il filo dall’ultima volta che Beetlejuice (Michael Keaton) è tornato dal mondo dei morti. È opportuno dunque fare una breve premessa sul primo film, analizzando generalmente le caratteristiche del suo e del nostro tempo.

È un compito difficile, infatti, quello di riuscire a dare una degna continuazione ad un cult immortale come è stato Beetlejuice. Oltre ad essere una grande opera di intrattenimento, il secondo lungometraggio di Burton entrò a gamba tesa nello spacco tra due decenni, raccogliendo l’eredità degli horror anni ’80 e facendosi precursore del gusto per il mostruoso e il grottesco tipicamente anni ’90. Inoltre, quello dell’88 è un film che prende vita a partire da un modo di fare prettamente burtoniano, poiché aspira ad un cinema quasi interamente “fatto a mano” in cui la magia della visione deriva direttamente dalla mano dell’artista, più che dalla macchina. Beetlejuice, come altri film di Burton, è sempre stato più vicino ad uno spettacolo di circo più che ad un’opera cinematografica vera e propria. È ovvio dunque che un’altra grande sfida per il sequel, quasi quarant’anni dopo l’originale, sia quella di rapportarsi al mondo digitale e provare ad integrarne i trucchi e le novità.

È sotto questo aspetto che Beetlejuice Beetlejuice lascia a bocca aperta: Tim Burton, riconfermandosi un maestro della sua arte, crea un mondo che vive in uno spaziotempo a metà tra il vecchio e il nuovo, tra l’uomo e la macchina, tra il modellino e il green screen. Da un lato tornano numerose le sequenze in stop motion carissime al regista e le ambientazioni sono quasi interamente costruite dal vero, dall’altro l’uso del digitale permette di tornare a sperimentare su un soggetto di forte ispirazione e si integra perfettamente con le componenti artigianali. Da questo connubio nasce un ibrido spettacolare che torna a mostrare le grandi potenzialità mostrative del mezzo cinematografico contemporaneo, lanciandosi oltre gli standard estetici del nostro tempo.

Beetlejuice Beetlejuice, la recensione del film di Tim Burton

Non solo sotto l’aspetto visivo, il film appaga e sorprende anche nella narrazione e nella scrittura. Un intreccio semplice, ma comunque più elaborato del primo Beetlejuice, riporta in scena alcune vecchie conoscenze e introduce nuovi e bizzarri personaggi. Dopo la morte del nonno Charles, la famiglia Deetz si riunisce per i funerali pochi giorni prima di Halloween: Delia (Catherine O’Hara) è diventata un’artista sperimentale di arte contemporanea; Lydia (Winona Ryder) lavora ad un programma televisivo sul paranormale insieme al suo fidanzato Rory (Justin Theroux); infine Astrid (Jenna Ortega), nuova arrivata e figlia della conduttrice, è infelice mentre studia in un college intestato alla sua famiglia. Dall’aldilà, il vecchio caro Beetlejuice intuisce che questo possa essere un buon momento per farsi vivo dopo anni e provare di nuovo a prendere in moglie Lydia. Tuttavia, sarà ostacolato dal ritorno della sua ex compagna Delores (Monica Bellucci), intenzionata a ricongiungersi con lo “spiritello porcello”.

I personaggi, per quanto si concedano più momenti di comicità che attimi di grande emozione, intrattengono tra loro dei rapporti ottimamente congegnati, che confluiscono ed esplodono in uno sbalorditivo atto finale. Ognuno di loro ha la sua storia ed è costretto ad affrontarne le difficoltà e gli eventuali antagonisti per difendere i propri interessi e chi gli sta a cuore. Sono magici i momenti di riconciliazione familiare sparsi qui e là per il film, capaci di scaldare il cuore e regalare un sorriso diverso dalla solita risata. Una menzione d’onore, inoltre, va ad uno straordinario Willem Dafoe, nella parte di un personaggio tanto paradossale quanto esilarante, di certo il più divertente del film.

Proprio a proposito di divertimento, Beetlejuice Beetlejuice evade ancora una volta dai canoni dell’attualità; non ha paura di beffarsi della comicità contemporanea e lo fa con la sfacciataggine di chi sa che per far ridere basta “solo” una grande padronanza delle parole (e, in questo caso, delle immagini). Tutte le gags sono certamente divertenti, ma alcune di esse raggiungono livelli di assurdità e “scorrettezza” che sfiorano ogni limite, per poi fermarsi al punto giusto per scatenare grosse risate. Insomma, in trentacinque anni di reclusione lo spiritello di Michael Keaton non è cambiato di un millimetro e va bene così.

Si può dire, concludendo, che Beetlejuice Beetlejuice sia una grandissima soddisfazione, in quanto porta con sé tutto ciò che di buono aveva il suo prequel, inserendosi perfettamente nella contemporaneità del 21esimo secolo. Il cast perfettamente congegnato diverte, emoziona, e permette anche riflessioni interessanti sul mondo dei media, sul matrimonio, sul valore della famiglia, e anche sul cinema di oggi. Ancora una volta, Tim Burton dimostra di essere un grande artista, un uomo di cinema in grado di giocare come vuole con le caratteristiche del suo tempo, cogliendone a pieno l’essenza per donarla a chiunque abbia voglia di affrontare la vita (e la morte) con un po’ di leggerezza.

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