Quale miglior regista di Steven Spielberg poteva dirigere un concentrato di elementi cult degli anni ’80 ’90 quale è “Ready Player One”?
Il best seller di Ernest Cline, nel 2010 ha sdoganato definitivamente la cultura “nerd” e “geek”, contribuendo in maniera sostanziale ad una vera e propria rivoluzione culturale.
Il film è ambientato in Columbus, Ohio, in un 2045 dove il distacco economico e sociale è ai massimi livelli e la maggior parte della popolazione vive in condizioni di estrema povertà, in baraccopoli fatiscenti che ricordano le favelas brasiliane. Per fuggire da questa triste realtà tutti si connettono ad OASIS, un universo virtuale dove i limiti sono imposti solo dall’immaginazione. Quando il creatore di OASIS, l’eccentrico James Halliday (Mark Rylance), muore, lascia all’interno del gioco un “Easter Egg”, una sorta di premio nascosto, che garantirà il controllo completo del mondo virtuale a chi lo troverà. Per farlo però bisogna decifrare complessi indovinelli, cercando le risposte nel passato di Halliday e nel suo amore per la cultura pop.
La creazione di avatar, l’immersione completa in un mondo fittizio grazie alla realtà virtuale e la fuga da una realtà che non ci appartiene, sono tutte tematiche che nel corso degli ultimi anni sono state grandemente approfondite, tanto nei videogiochi quanto nel cinema. Ecco perché a prima vista “Ready Player One” ci sembra peccare un po’ di originalità, rispetto quantomeno alla sua controparte letteraria, uscita quasi un decennio fa. Nonostante questo però Spielberg riesce a tenere elevata l’attenzione dello spettatore, tanto che guardando il film ci sembra quasi di sfrecciare nelle pieghe dello spazio-tempo sulla DeLorean di “Doc”. Veloce e supersonico, il film è un nostalgico “ritorno al passato”, tra citazioni ed elementi cult che compongono la vera anima del film.
Spielberg ha il grande pregio di bilanciare bene l’azione adrenalinica e l’avanzare della trama, almeno per i due terzi del film, quasi interamente ambientati nell’universo di OASIS, dove si concentrano gli esperimenti registici migliori, tra cui il “riadattamento” di alcune sequenze di uno dei film più importanti della storia del cinema.
Nel terzo atto il film si appesantisce. Le sequenze al di fuori di OASIS sono decisamente le meno ispirate, e il finale, piuttosto banale, lascia quasi un senso di smarrimento. L’effetto nostalgia è facile da costruire quando si hanno a disposizione così tanti riferimenti culturali, risulta anche divertente per lo spettatore cercarli e riconoscerli, ma se il tutto non è ben supportato, una volta usciti dal cinema ci rimane effettivamente poco.
Va detto comunque che Spielberg è stato chiamato ad un’operazione complessa: rendere fruibile al grande pubblico un prodotto nato essenzialmente per una nicchia di intenditori, riuscendo comunque nell’impresa e confezionando un blockbuster divertente e spettacolare come non se ne vedevano da tempo.
Di Matteo Simonetti