#RomaFF19: Reading Lolita in Tehran, la recensione del film di Eran Riklis

Reading Lolita in Tehran, la recensione di DassCinemag

Dopo aver abitato per un periodo negli Stati Uniti, la docente in letteratura angloamericana Azar (Golshifteh Farahani, anche in About Elly di Asghar Farhadi e Paterson di Jim Jarmusch) e suo marito Bijan (Arash Marandi), ingegnere civile, fanno ritorno in Iran nel 1979, anno della Rivoluzione khomeinista (dal nome del suo leader, l’ayatollah Ruhollah Khomeini) e della conseguente instaurazione della Repubblica Islamica. Come molti altri concittadini iraniani, Azar e Bijan credono ancora che la rivoluzione abbia segnato una svolta di tipo progressista per il Paese, in cui sarebbe ora possibile costruire un futuro per sé e le prossime generazioni.

Il duro scontro con la realtà avviene per Azar con l’avviarsi della sua docenza presso l’Università Allameh Tabatabei di Tehran: dopo la provvisoria libertà concessa nelle prime lezioni, la didattica di Nafisi viene da ordinamenti governativi fortemente ristretta, limitata soltanto alle opere letterarie giudicate come consone alla morale dalla censura. Azar si rifiuta categoricamente di collaborare con questa, quindi con il regime tutto, e, come prezzo del suo rifiuto a scendere a compromessi è costretta a dimettersi. Sarà questo un significativo punto di svolta per l’insegnante, che canalizzerà la sua passione per la letteratura nella creazione di uno spazio privato e protetto di sua libera analisi ed espressione.    

La struttura narrativa del film è derivata dalla sua fonte letteraria e ne costituisce un originale e saldo punto di forza. L’opera si articola in quattro sezioni principali, ciascuna delle quali si sviluppa parallelamente al classico della letteratura di cui in essa Azar discute con gli studenti, in università oppure nel salotto di casa. In successione, vengono esaminati, rintracciandone le analogie con la contemporanea situazione della Repubblica Islamica d’Iran, Il grande Gatsby (1925) di Francis Scott Fitzgerald, Lolita (1955) di Vladimir Nabokov, Daisy Miller (1878) di Henry James e Orgoglio e pregiudizio (1813) di Jane Austen.

Diretto dal regista israeliano Eran Riklis (con Lemon Tree nel 2008 aveva raccontato il conflitto israelo-palestinese dal punto di vista di una coltivatrice di limoni della Palestina), Reading Lolita in Tehran (trailer) è attualmente in concorso nella sezione Progressive Cinema della diciannovesima edizione del Rome Film Fest. È tratto dall’omonimo romanzo best seller del 2003, un racconto autobiografico scritto da Azar Nafisi negli Stati Uniti, dove si è trasferita stabilmente con marito e figli nel 1997.

Le parole di questi grandi autori fungono da strumento di lettura del, e insieme arma di resistenza e lotta contro il, complicato mondo in cui Azar e compagne – più che compagni – si trovano di colpo recluse, senza che abbiano potuto preventivamente studiare un’azione di contestazione o un piano di fuga. Ma, non appena la repressività del regime inizia a farsi più intensa, le strade di Tehran vengono inondate dalle manifestazioni, mentre la casa di Azar colmata dalla presenza delle sue più appassionate alunne.

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Solo nella prima parte del film, infatti, quando tiene ancora le lezioni in università, l’insegnante si rivolge ad una classe mista. È la componente maschile che tende per lo più a mettere in discussione le opere proposte, giudicandone l’aderenza ai principi del regime e considerandole con approccio irrimediabilmente disilluso: tutte le donne del libro sono corrotte; l’ambizioso self-made man Gatsby non ama davvero la giovane e affascinante ereditiera Dasy, ha a cuore soltanto il dio denaro.

Quando le lezioni si spostano nel salone dei Nafisi, di cui il coniuge deve, come promesso alle ragazze selezionate dalla moglie, essere fuori casa, Azar si sente di alzare la posta in gioco e di sottoporre all’analisi delle giovani donne il controverso Lolita. Attraverso una serie di riflessioni collettive emerge dal gruppo un paragone netto, che vede nell’ambiguo e abusante rapporto tra il professor Humbert Humbert, quarantenne, e la figliastra adolescente Dolores la stessa subalternità vigente in Iran tra l’anziana casta religiosa al potere e la cittadinanza femminile. Come il personaggio di Daisy Miller, poi, qualsiasi aspirazione all’autodeterminazione da parte della donna è considerata dal regime trasgressiva, dunque condannabile: alla ragazza statunitense in viaggio per il vecchio continente protagonista dell’opera di James, infatti, non sarà permesso decidere per sé il proprio posto all’interno dell’alta società europea, nella quale tanto desidera integrarsi.

Sempre relativamente al rapporto tra i generi delineato nel film, significativi sono i confronti che regolarmente Azar intrattiene con due tanto decisive quanto positive figure maschili: quella del già menzionato marito Bijan e quella del cosiddetto “mago” (Shahbaz Noshir), un ex docente universitario divenuto amico e confidente della protagonista. Bijan è un “uomo umano”, non supporta il regime ed ama e rispetta sua moglie, della quale, tuttavia, impiega del tempo per comprendere le ragioni: in un primo momento manifesta una, seppur contenuta, gelosia nei confronti del legame tra Azar ed il “mago”, che pure si manterrà sempre platonico; di fronte all’ormai ingestibile insofferenza della moglie verso la situazione sociale del loro Paese ed il manifestare di lei del desiderio di lasciarlo nuovamente, Bijan descrive riduttivamente le lamentele di Azar come dei capricci, che non avrebbero senso di esistere visto che entrambi amano l’Iran.

Il “mago”, d’altra parte, è per la protagonista preziosa fonte d’ispirazione nella preparazione delle sue lezioni per le ragazze. A tenere assieme i due, infatti, è una smodata passione per la letteratura: l’ex professore ha sempre nascosto nel cappello il titolo di un’opera che riflette le preoccupazioni che in un determinato momento agitano Azar.

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A fronte della riuscita definizione dei due personaggi maschili più rilevanti, più povera, paradossalmente, risulta la caratterizzazione delle giovani donne che partecipano con regolarità al seminario di Azar, il quale pure ha un ruolo preponderante nel film. Le ragazze, infatti, appaiono come veicoli materici per la raffigurazione di esperienze, purtroppo, largamente diffuse nella società iraniana, vissute da molte donne del Paese. La carenza di connotati personali è stata forse ricercata, credendola funzionale ad una rappresentazione quanto più possibile universale. In tal caso, tuttavia, si sarebbe ottenuto un risultato piuttosto distante da quello desiderato, dal momento che l’impostazione generica dei personaggi femminili agisce da ostacolo allo stabilirsi con essi di una connessione empatica, che sola può condurre ad una profonda comprensione delle vicende sullo schermo.  

Quella di Riklis è una regia elementare, che ha come unico interesse quello di rendere comprensibile l’evolversi delle vicende politico-sociali e di quelle personali che attraversano il film. È, ancora, una regia che commenta poco, che non si preoccupa di sfruttare il potenziale espressivo della componente visiva, nonché più distintiva, del linguaggio cinematografico. Riklis si limita a riprendere ciò che accade di fronte alla macchina da presa senza reinterpretarlo più di tanto, adagiandosi sulla ricchezza della scrittura del libro di Nafisi.

A quale scopo, dunque, servirebbe la trasposizione sul grande schermo dell’opera letteraria? A quello di divulgazione di una storia dall’alto valore paradigmatico rispetto ai radicali stravolgimenti che, nell’ultimo ventennio del Novecento, hanno investito l’Iran, solo fino a quasi cinquant’anni fa il Paese più occidentalizzato del Medio Oriente. Reading Lolita in Tehran è da recuperare, non tanto per la sua qualità cinematografica, quanto, decisamente, per la sua azione educativa.

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