Stanley Kubrick non è nato come il regista che conosciamo per essere stato uno dei più grandi della storia del cinema. Non ancora trentenne e affiancato da James B. Harris, Kubrick si cimenta per la prima volta nella stesura di una sceneggiatura con The Killing, in Italia conosciuto come Rapina a mano armata (1956), aprendo, di fatto, la fase conclusiva del noir classico hollywoodiano.
Johnny Clay (Sterling Hayden) guida una gang piuttosto eterogenea e raccogliticcia nella pianificazione di una rapina. Il bottino di $2.000.000 gli permetterà di ritirarsi e stabilirsi con la compagna Fay (Coleen Gray).
Sembrerebbe la trama snella, priva di colpi di scena, di un film a basso costo girato nelle squallide ambientazioni urbane del noir, ormai quasi fuori luogo rispetto l’epoca del cinema a colori. Vero è che Rapina a mano armata nasce come low-budget film, senza incassare granché al di fuori degli Stati Uniti anche a causa della mancata campagna pubblicitaria della United Artists. Ciononostante, la pellicola si guadagna il plauso del «Time» e del «Saturday Review» nonché della stessa Metro-Goldwyn-Mayer, che offre a Kubrick ed Harris un budget decisamente maggiore per Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) e Lolita (1962), entrambi frutto del promettente ma breve sodalizio tra i due.
Ma l’eredità di Rapina a mano armata giunge a noi tramite pellicole più familiari. Il tanto amato e odiato Quentin Tarantino non sarebbe lo stesso senza l’opera di Kubrick in questione, cui ha fatto esplicitamente riferimento per il suo film d’esordio Le Iene (Reservoir Dogs, 1992).[1] Ancora, basta riportare alla mente le maschere che indossano Joker e la sua gang nella sequenza iniziale del campione di incassi Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan: un omaggio al camuffamento di Johnny nonché citazione di uno degli elementi kubrickiani per eccellenza.
La genesi dell’uomo kubrickiano
Solitari eroi romantici e perdenti, psicopatici che non riescono a salvaguardare la serenità della propria coppia: Kubrick, notoriamente, propone “l’estremo” di ogni suo personaggio, e già in Rapina a mano armata non si risparmia. Colpiscono l’orecchio dello spettatore i dialoghi di Jim Thompson, scrittore hard-boiled che dà voce a conversazioni scarne e dirette – “raffreddate” rispetto al romanzo Clean Break di Lionel White, a cui il lungometraggio si ispira. Le relazioni diventano terreno fertile per giochi di potere: George Peatty (Elisha Cook), inetto e impotente, è disposto a partecipare alla rapina per comprare l’amore di Sherry (Marie Windsor), che, dal canto suo, «prende in contropiede il coniuge, sabota i suoi tentativi di conversazione, lo mette continuamente a disagio», come scrive il critico Roberto Curti nel suo Stanley Kubrick. Rapina a mano armata (LiNDAU, 2007).
Il «New York Times» definisce Rapina a mano armata «un melodramma abbastanza divertente», forse senza comprendere a fondo una delle tematiche fondanti del cinema kubrickiano, ovvero il contrasto tra i personaggi e il mondo che li circonda, illogico e fatto della stessa violenza che scorre nelle loro vene («Credo basti una buona dose di schiaffoni», minaccia Johnny, deciso a punire Sherry che origliava la pianificazione del colpo grosso). La falsità delle convenzioni sociali e di conseguenza delle relazioni umane, l’assenza di fiducia nell’altro, un atteggiamento nichilista che smorza non solo le emozioni ma anche le pulsioni – l’erotismo del romanzo è infatti detto sottovoce da accenni all’astinenza, all’omosessualità e all’impotenza – guidano alla consapevolezza di un fato avverso che si fa beffe dell’uomo.
L’immancabile voce narrante dei noir, qui del leggendario speaker radiofonico americano Art Gilmore, scandisce al minuto la tabella di marcia programmata per il colpo grosso, suggerendo, più o meno inconsciamente, la predestinazione e l’assenza di libertà d’azione dei personaggi. Curti commenta l’epilogo del film, in cui Johnny si consegna nelle mani della polizia dopo un imprevisto che, inevitabilmente, lo smaschera:
La battuta finale di Clay, quel “What’s the difference?” […], tradisce la prima presa di coscienza di uno dei postulati dell’opera di Kubrick. E lo sguardo incredulo e instupidito di fronte allo scacco è lo sguardo dell’uomo kubrickiano, sconfitto dai meccanismi che ha creato e che si illudeva di dominare, vittima […] di un universo […] in cui pensiero, volontà, immaginazione e realtà si scontrano con risultati stravaganti e imprevedibili.
Come una partita a scacchi: il montaggio discontinuo
Rapina a mano armata è ascrivibile al sottogenere del “caper movie” o “heist film”, traducibile come “film del colpo grosso”, un colpo, nel nostro caso, pianificato in modo né troppo acrobatico né semplicistico: oseremmo dire “lineare”, se non fosse per la regia labirintica e la manipolazione della dimensione temporale che tramite il montaggio discontinuo fa correre avanti e indietro le lancette dell’orologio.
Solo la voce narrante può aiutare lo spettatore nella frenesia del montaggio di Betty Steinberg. Secondo Roger Ebert la trama in Rapina a mano armata è come la mente di un giocatore di scacchi, per la quale ogni mossa determina l’esito della partita. «Eccoli, sono partiti»: che in questa prima battuta la “partenza” annunciata si riferisca a uno o a tutti gli aspetti della sfera ludica del lungometraggio – la corsa dei cavalli, le scommesse, il piano stesso della rapina che viene organizzato in una sala gioco – non è rilevante. Per Kubrick il gioco è spostare i suoi protagonisti – e ancor di più gli spettatori – tra le caselle della scacchiera come pedine di una partita giocata sul filo del rasoio.
«La sua cinepresa bracca i personaggi con l’occhio di un terrier che sorveglia un gruppo di topi», scrive il critico Enrico Ghezzi. Il camerawork è stato paragonato a quello di Orson Welles, cui lo stesso Kubrick guarda per i molteplici punti di vista, le angolazioni distorte e il deep focus. Il noir è evocato dal gioco di luci espressionistico di lampade che illuminano i profili e dall’uso di sbarre o delle loro ombre, che scandiscono il ritmo dell’inquadratura e “ingabbiano” i personaggi palesando al pubblico la loro condizione di prigionia.
Il gruppo di topi tuttavia si muove entro questo spazio limitato che è la scena secondo simmetrie tutte da ricercare nel perfezionismo di Kubrick (un’analisi puntuale è disponibile al link). Nota Curti, ad esempio, che nelle numerose carrellate presenti in Rapina a mano armata la macchina da presa, prediletta per soggetti maschili in contrasto con la staticità dedicata a quelli femminili, si muove da sinistra a destra «evocando un movimento coordinato», mentre viceversa suggerisce «l’urgenza di fuga, l’uscita dagli schemi, l’impulso distruttivo dell’istinto animale e del caos».
La sequenza della sparatoria, girata a mano, tradisce invece la simmetria rincorsa ossessivamente fino a quel momento da Kubrick e presente in qualsiasi sparatoria hollywoodiana, che sempre direziona lo spettatore all’interno dello scontro, consegnandolo come una pallina da ping-pong tra l’aggressore e l’aggredito. Curti nota: «L’inquadratura [finale] è una barcollante soggettiva di George, che attraversa l’appartamento (un movimento verticale e irregolare, a spezzare le linee perfette e immutabili tracciate fino a quel momento) e impugna la maniglia». La simmetria si riaffaccia poi quando Johnny, oramai ingabbiato, si arrende nella scena finale.
SITOGRAFIA
Roger Ebert, A heist played like a game of chess, in rogerebert.com, 2012;
Haden Guest, The Killing: Kubrick’s Clockwork, in criterion.com, 2011;
The Killing (1956, Stanley Kubrick), in dustyflix.wordpress.com, 2019.
[1] «I didn’t go out of my way to do a rip-off of The Killing, but I did think of it as my ‘Killing’, my take on that kind of heist movie».