Attore, commediografo, poeta, compositore, Raffaele Viviani (1888-1950) ha segnato profondamente la storia del nostro teatro, divenendo, assieme a Eduardo De Filippo, uno dei grandi protagonisti della drammaturgia napoletana del Novecento [1]. Vero e proprio enfant prodige, Viviani debuttò a soli quattro anni e da quel momento non smise di intrattenere il suo pubblico. Prima al fianco della sorella Luisella, poi macchiettista solista del Varietà e successivamente drammaturgo e capocomico di una compagnia, egli rivelò nel tempo un talento istrionico dalle doti attoriali e vocali senza precedenti.
Sui palcoscenici dei teatri di Varietà e dei Café-chantant, negli anni antecedenti alla Prima Guerra Mondiale, Viviani creò un repertorio di “numeri”, scenette attraverso cui diede corpo e voce ai “tipi” della sua città. Venditori ambulanti, “guappi”, pescatori, nobili decaduti, giovani innamorati e malavitosi rivivevano ogni sera per opera dell’autore-attore, materializzandosi sulla scena. Figure comiche e realistiche, sconfitte dalla miseria e dalla precarietà della strada, che non abbandonarono mai il teatro dialettale di Viviani, anche quando dal 1917 “Don Raffaele” decise di sperimentare le forme più complesse dell’atto unico e della commedia in atti, senza rinunciare a quell’impasto di dialoghi, canto e musiche tipico del varietà [2]. ‘O Vico (1917), Via Toledo di Notte, Porta Capuana (1918), Circo equestre Sgueglia (1922), Pescatori (1924) e Zingari (1926) sono solo alcuni dei titoli che andarono a comporre una produzione teatrale di grande successo, capace di restituire con una precisione da inchiesta etnologica un affresco di Napoli e dei suoi intrecci di rapporti umani e sociali [3].
A distanza di settant’anni dalla sua morte, la fama di Viviani appare paradossale. Come ha notato Ferdinando Taviani, malgrado venga considerato “il grande poeta della scena napoletana”, il drammaturgo è costantemente dimenticato e riscoperto [4]. Sebbene ancora oggi i suoi testi vengano rappresentati e non manchino studi sull’attore, Viviani meriterebbe uno sguardo più ampio che ne possa mostrare la poliedricità. La recente pubblicazione di un’autobiografia inedita e la riscoperta nel 2005 di una pellicola muta hanno permesso di mettere in luce un lato poco esplorato della carriera di Viviani: il suo rapporto con il cinema.
All’intensa attività artistica in campo teatrale, Raffaele Viviani infatti affiancò un profondo interesse per il cinematografo, rintracciabile anche in alcuni componimenti e pezzi teatrali. Come altri interpreti di teatro, l’attore napoletano si avvicinò all’arte cinematografica con l’obiettivo di ampliare la propria popolarità e riproporre di fronte la macchina da presa quei ruoli che lo avevano reso celebre sul palcoscenico. Tuttavia, a differenza dei più noti Totò o Nino Taranto, l’esperienza di Viviani sul grande schermo si rivelò poco fortunata, e si esaurì con la partecipazione a un numero esiguo di pellicole – sei in totale – in circa trent’anni.
Il primo approccio di Viviani al cinema avvenne nel 1912, nel pieno della sua attività nei teatri, quando venne scritturato con la sorella Luisella dalla Cines per la realizzazione di Un amore selvaggio, L’accusato e La catena d’oro, un trittico di pellicole dall’impostazione fortemente teatrale [5]. L’accusato, film perduto, sembrerebbe un adattamento di Fiamme der core, un numero di varietà in romanesco dello stesso commediografo che dava voce alla gelosia folle di un uomo tradito, accusato dell’omicidio della moglie e del suo amante. Riguardo La catena d’oro, anche questo mai ritrovato, sembra certo solo che sancì la conclusione della collaborazione con la casa di produzione romana.
Maggiori dettagli sono emersi su Un amore selvaggio, scoperto e restaurato dal Nederlands Filmmuseum nel 2005, e attualmente unica testimonianza audiovisiva del periodo del muto di Viviani [6]. Ambientato in una Sicilia rurale, il film, esempio di un filone realistico-meridionale, narra una vicenda d’amore e gelosia sullo sfondo delle differenze di classe. La trama è ricavata dal teatro popolare napoletano dell’epoca, come dal teatro provengono anche la costruzione della narrazione filmica per quadri, la recitazione degli interpreti principali e il personaggio di “Rafiluccio” che, sfruttando la fama della sua immagine, a discapito del contesto rurale, indossò l’abito di scena con berretto da marinaio caratteristico di tante sue esibizioni [7].
Dopo i tre film romani, Viviani si allontanò dall’industria cinematografica per un lungo periodo. Le case di produzione partenopee invano provarono a coinvolgerlo in pellicole di consumo d’ambientazione napoletana. Critico riguardo il sonoro, egli rifiutò continuamente soggetti che riteneva mediocri. L’unica eccezione risulta Testa a testa, prodotto dalla Partenope Film nel 1912, accettato da Viviani – nei panni di un giacobino – forse per esigenze economiche [8]. Fu probabilmente l’occasione di creare una pellicola diversa da quei prodotti commerciali che convinse “Don Raffaele” a tornare al cinema, a distanza di venti anni dall’ultima esperienza. Nel 1932, Viviani partecipò con fervore alla produzione de La tavola dei poveri, adattamento di un suo omonimo atto unico con la regia di Alessandro Blasetti.
L’opera cinematografica, finanziata dalla Cines di Emilio Cecchi, è una commedia dalle venature drammatiche che segue le rocambolesche vicende di Isidoro Fusaro (Raffaele Viviani), marchese decaduto deciso a mantenere uno stile di vita facoltoso per il titolo nobiliare che possiede. Fusaro si barcamena tra debiti e promesse non mantenute, e come membro di un comitato benefico, è obbligato a impegnarsi nell’organizzazione di opere di carità per i più poveri. Peccato che ad averne bisogno è proprio lui, ormai ridotto alla fame.
Attuando una riflessione amara sulla povertà, già al centro del testo del 1931[9], il drammaturgo – anche nel ruolo di sceneggiatore al fianco di Soldati, De Stefani, Cecchi e Blasetti – lavorò al film con l’intento di nobilitare “la sua Napoli”, «quella delle officine, dei cantieri, dove il popolo vive […] nella sua rude snervante fatica»[10]. Viviani rifiutò le narrazioni, le canzoni e i personaggi stereotipati della sceneggiata napoletana in voga in quegli anni [11], e con l’aiuto di Blasetti portò sul grande schermo – come aveva fatto in teatro – l’immagine di una Napoli popolare e miserevole.
La drammaticità della storia è restituita appieno anche dalla raffinata prova recitativa dell’attore stabiese. Si pensi all’episodio del banchetto di beneficenza in cui Fusaro, disperatamente affamato, frena il desiderio di mangiare la minestra destinata ai più poveri; o alla sequenza conclusiva del film in cui il marchese, ormai consumato dall’indigenza, combatte ancora per mantenere il suo decoro, e con suo stupore viene scambiato per un mendicante. Monocolo all’occhio, tight e baffi, Viviani diede vita a un personaggio sfaccettato, vivace e profondamente malinconico, che sembrò anticipare le peculiarità dei protagonisti del cinema neorealista di Vittorio De Sica, e fu paragonato da alcuni recensori al «più puro Charlot» [12].
Alla fine degli anni Trenta, in un momento difficile per l’avversione del regime fascista nei confronti dello spettacolo dialettale, Viviani pensò di affidarsi nuovamente nelle mani di un regista. Nel 1938 accettò la proposta della Juventus Film di adattare L’ultimo scugnizzo, commedia in tre atti che aveva debuttato sette anni prima al Teatro Piccinini di Bari. Come sul palcoscenico, il macchiettista interpretò la parte di ‘Ntonio, uno scugnizzo disoccupato alla ricerca di una vita migliore per sé e per la donna che ama. Ancora una volta la resa attoriale di Viviani consegnò agli spettatori una maschera realistica inedita, ma il film, diretto da Gennaro Righelli, malgrado un buon riscontro in sala, fu aspramente criticato.
Lo scugnizzo ‘Ntonio rimase l’ultimo ruolo di Raffaele Viviani davanti la macchina da presa [13]. Mentre la consacrazione sul grande schermo sembrava lontana, quell’entusiasmo iniziale si stemperò progressivamente. Compresa la distanza tra l’arte teatrale e il linguaggio del cinema, l’attore napoletano maturò la consapevolezza di essere destinato al teatro, e si impegnò in nuovi spettacoli per tornare ad abbracciare il suo pubblico. Quel pubblico – assente sul set – che Viviani definiva una “bombola d’ossigeno” e che, dal successo di Scugnizzo al Petrella di Napoli nel 1904, lo aveva accompagnato in tutte le sue recite.
Ripensando ai suoi rapporti contraddittori col cinematografo, negli ultimi anni di vita egli scrisse nelle sue memorie: «In cinema si lavora alla cieca: tutta na cosa meccanica; il tuo pubblico è assente […]. Quando tu staie ncopp’ ‘o palcoscenico invece, ah! Chello che vo’ ‘o pubblico, tu ‘o sciente dint’ ‘a ll’aria; capisce si staie “facendo” buono e si si staie “facendo” malamente; si ‘a gente se diverte o se sta scuccianno. […] ti senti seguito, sorretto. Ma accussì, a parlà nannze a ‘na machina, addeviente na machina pure tu…» [14].
[1] Per un’analisi esaustiva del percorso artistico di Raffaele Viviani si veda Trevisani G., Raffaele Viviani, Bologna: Cappelli editore, 1961.
[2] Taffon G., Maestri drammaturghi nel teatro italiano del’900. Tecniche, forme, invenzioni. Roma-Bari: Laterza, 2005, p.3.
[3] Cfr. Ghirelli A., Un secolo di risate. Con Eduardo, Totò e gli altri. Cava de’ Tirreni: Avagliano, pp. 49-60.
[4] Taviani F., Uomini di scena uomini di libro. La scena sulla coscienza, Roma: Officina edizioni, 2010, p. 98.
[5] Nelle sue memorie Viviani colloca i primi contatti col cinema nel 1908, in seguito all’inaugurazione del Teatro Jovinelli a Roma. La recente scoperta di Un amore selvaggio, primo film di Viviani, ha permesso di correggere l’imprecisione cronologica.
[6] Nel 2005 Vittorio Martinelli alluse al ritrovamento di un altro film muto di Viviani, probabilmente Testa a testa (Partenope Film, 1912).
[7] Iaccio P., Torna Viviani, ma senza voce, “Il Mattino”, 30 luglio 2005.
[8] Lori S., Viviani e il cinema, in AA. VV., Raffaele Viviani a venticinque anni dalla morte, Comitato per le celebrazioni di Raffaele Viviani nel XXV anniversario della morte Napoli, 1975, p.138.
[9] L’atto unico, divenuto sceneggiatura, fu rielaborato da Viviani in una commedia più complessa che venne rappresentata nella sua nuova veste nel 1936.
[10] Nardo M. E. (A cura di), Viviani R., Dalla vita alle scene. L’altra autobiografia (1888-1947), Napoli: Rogiosi, 2012, p. 205.
[11] Samperi G. V., Il più grande film di Raffaele Viviani in Cinema Illustrazione, n.34, p.7., agosto 1932.
[12] Lettera di Viviani a Blasetti in La tavola dei poveri. Testimonianze, immagini e documenti, brochure contenuta nel DVD del film.
[13] Durante gli anni del Secondo Conflitto Mondiale si parlò di una riduzione de I pescatori, commedia di Viviani del 1924. La sceneggiatura fu affidata a Puccini, Doria, Pozzi Bellini e Vittorio Viviani. Lori in Viviani e il cinema, op. cit., 1975, fa il nome di Luchino Visconti alla regia. Nelle sue memorie Viviani non nomina Visconti, e riporta Pozzi Bellini come regista.
[14] Nardo M. E. (A cura di), Viviani R., Dalla vita alle scene. L’altra autobiografia (1888-1947), op.cit., p. 205.