Luglio 1995. Durante la guerra di secessione della Jugoslavia le milizie serbo-bosniache comandate dal generale Ratko Mladic assediano la città bosniaco-mussulmana di Srebrenica. Qui vive Aida, impiegata come traduttrice all’interno della base militare delle Nazioni Unite. È da qui che parte il racconto di Jasmila Žbanić (Orso d’oro nel 2006 per Il segreto di Esma). È da qui che incomincia Quo Vadis, Aida? (qui trailer), arrivato nelle sale italiane lo scorso 30 settembre 2021, dopo essere stato in corsa per il Leone d’oro nel 2020 ed essersi aggiudicato l’Indipendent Spirit Award nel 2021 come miglior film straniero (categoria per la quale ha concorso anche agli Oscar nello stesso anno) e ora il Miglior film agli EFA.
Un film ispirato a un episodio di vita realmente accaduto a Hasan Nuhanović e descritto nel suo libro Under the UN flag. Non è la prima volta che la regista bosniaca sceglie soggetti che raccontano la storia del suo paese nativo (il suo film d’esordio, Il segreto di Esma, tratta, per esempio, delle condizioni sociali a Sarajevo nel 2006). Non è la prima volta che il suo sguardo decide di concentrarsi sulla guerra e le sue atrocità, legandole indissolubilmente alla vita delle sue protagoniste. Ecco allora che in Quo Vadis, Aida? la guerra si lega alla maternità e all’amore. Nel film, questi due temi così opposti si sovrappongono narrativamente e si mescolano fino a essere indistinguibili, fino a non riuscire a capire mai davvero quando inizia il dolore e quando finisce l’amore.
La protagonista, Aida (Jasna Djuricic), lavora all’interno di una zona costantemente presidiata dai caschi blu del colonnello olandese Karremans (Johan Heldenbergh). L’area di competenza dell’ONU è l’unico luogo sicuro rimasto in città, e rappresenta l’unica possibilità per Aida di mettere in salvo la propria famiglia. In questo modo, Žbanić associa alla tragica narrazione di un genocidio fratricida, il terrore di una madre che prova in tutti i modi a eludere la dolorosa e lucida consapevolezza della guerra.
Il coinvolgimento emotivo è, nel film, costantemente alimentato da efficaci espedienti tecnici, come l’alternanza di primi piani frontali in contrapposizione ai campi lunghi sulle masse di gente accalcata davanti ai cancelli serrati dell’ONU. La folla, infatti, rimane la prospettiva principale dello sguardo registico. Questo incessante focus sulle masse, d’altronde, “disarma” lo spettatore e lo esorta a riflettere sulla drammaticità dei fatti, anche grazie all’assenza quasi totale della colonna sonora. Durante la proiezione non sono presenti soluzioni musicali incisive e ciò sottolinea la potenza dell’immagine che non fatica a sostenere da sola l’intero ritmo del film.
Un’immagine che ha come obiettivo non tanto quello di dare una semplice esposizione riassuntiva dei fatti storici avvenuti durante il massacro di Srebrenica, quanto quello di mostrare un racconto umano. L’esito del conflitto jugoslavo viene infatti lasciato ai libri di Storia, ed è per questo che alla regista non interessa soffermarsi su ciò nell’ultima scena. La sequenza finale apre un altro capitolo, che supera i dissidi territoriali e ci riporta all’inizio, all’amore di Aida per i suoi figli, all’unico sentimento che resta indissolubile in mezzo a tanta distruzione, così forte da resistere indistintamente a tutte le ferite del passato. Questa spinta vitale è così profonda e così commuovente e pura, che nemmeno il più atroce dolore riesce a estirparla, facendoci perfettamente immedesimare in quell’istinto materno che diventa una metafora universale, una vera dimostrazione di sopravvivenza. Questo film è un esercizio di memoria e ci ricorda che la guerra non può essere la soluzione, che la vita delle persone non può essere mai il prezzo dei fallimenti altrui, così come l’indifferenza non può essere la condizione di vita per chi resta.
Ind*E*pendent Spirit Award