«Rahma e Ghofrane, le ha prese il lupo cattivo». Cosa ti resta quando le tue figlie più grandi scompaiono, o meglio, questo è quello che vorresti poter raccontare a tutti; forse un rapimento sarebbe meno doloroso della verità. E allora, cosa ti rimane quando le tue figlie maggiori lasciano te e le loro sorelle ancora bambine per arruolarsi nello Stato Islamico?
Olfa Hamrouni è una donna dura, spesso violenta; nell’intricato palcoscenico di Quattro figlie (trailer), interpreta se stessa e il suo dolore, al fianco di Eya e Tayssir Chikhaoui, le sue figlie più giovani – di ventuno e diciannove anni. C’è un vuoto – inspiegabile, e per questo appena accennato – che riempie il sofà blu sul quale siedono, e la regista tunisina Kaouther Ben Hania lo interroga e pungola da tutti i lati.
Di fronte a un lutto, a un senso di colpa esorbitanti, tanto grandi che sembra impossibile anche solo pensarci, Ben Hania prova l’ultima sponda: lasciare alle sorelle lo spazio per reintepretare la storia delle loro vite, e alla madre di fare lo stesso (con una concessione: le scene più difficili, le interpreterà un’attrice); si prende insomma il rischio di una pratica completamente al di fuori di ogni etica, di una spettacolarizzazione al limite del sadico sulla pelle di una famiglia intera; e il risultato è, contro ogni aspettativa, un film talmente delicato da essere struggente.
Quattro figlie è abitato da donne, che sanno prendersi in giro, s’intrecciano i capelli a vicenda dentro e fuori la scena e non hanno paura di litigare né di sostenersi quando il lutto si fa troppo difficile da sopportare – con naturalezza, conoscendosi appena, come fosse ovvio. Un solo attore interpreta tutti gli uomini del passato di Olfa e delle sue figlie, spingendoli sullo sfondo della monumentale storia di una famiglia che dal mondo maschile non ha ricevuto altro che violenza.
La spirale della radicalizzazione di Rahma e Ghofrane si muove a un ritmo sincopato e inquietante, inesorabile; intorno, una Tunisia confusa e scossa dai moti rivoluzionari del 2010, dalle parole impietose dei fondamentalisti urlate in piazza da un microfono. Muovendosi in una danza complessa e risoluta, con la figura di Olfa – difficile, difficilissima, manesca e controllante con le figlie, e allo stesso tempo esempio massimo di resistenza – ballano anche Eya e Tayssir, due corpi ancora di ragazze eppure di una forza incommensurabile. Con una spietata ingenuità di bambine provano a indossare il burka come fosse un gioco e scherniscono le ossessioni radicali delle sorelle più grandi, rimettono in atto gli inquietanti giochi imparati per ricordarsi che la vita in terra non è che di passaggio, raccontano di Ghofrane che a diciott’anni voleva seppellirsi viva per sentirsi più vicina ad Allah.
«Facciamo una pausa, voglio parlarti lontano dalla telecamera», chiede l’attore alla regista, nel bel mezzo della scena che l’avrebbe visto, nelle vesti del compagno eroinomane della madre, litigare violentemente con Eya; «E che problema c’è», risponde lei, dall’alto dei suoi vent’anni, «è un attore. È il suo lavoro. Io non ho paura, perché lui invece sì?». E forse sta tutto qui; non c’è paura a piangere davanti alla camera, non c’è paura nel giocare con due sconosciute come fossero le tue sorelle, non c’è paura a dire “ci è successo questo ed è stato ingiusto”.
Rahma e Ghofrane sono in carcere dal 2016 e nel 2023 sono state condannate a sedici anni di reclusione; fuori, tre donne le aspettano; si chiedono se potranno rivederle presto.
Al cinema dal 27 giugno.