«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.». Così recita il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, proclamata a Parigi nel 1948. E Qualcosa di Meraviglioso (in originale Fahim) nelle ultime battute si domanda se la Francia sia ancora il paese di quella dichiarazione. Ma la Francia (così come tutta la culla culturale europea) è una nazione a due facce, spezzata tra la bontà dell’accoglienza e il rigetto dello straniero, come bene anche ci ha mostrato Roman Polanski nel suo splendido L’Ufficiale e La Spia.
Pierre-François Martin Laval firma la regia e la sceneggiatura di un film politico che si ricopre di umano, teso costantemente verso la positività dell’inevitabile happy ending ma che non perde mai di vista la vivida amarezza del percorso che migliaia di individui affrontano ogni singolo giorno. Lo fa donando dignità a Nura Mohammad (Mizanur Rahaman) e suo figlio Fahim (Ahmed Assad), dagli sguardi sempre fieri, che nel 2011 abbandonano un Bangladesh dove dormire per strada è una quotidianità che non suscita nemmeno più curiosità in chi passa. Fahim è un piccolo prodigio degli scacchi, e la Francia è il luogo dove può incontrare finalmente un “grande maestro”. Le motivazioni della partenza sono forse più oscure, accennate in fugaci flashback ma funzionali nel gioco di spinta al ragionamento empatico che Qualcosa di Meraviglioso si prefigge.
Laval concentra il suo film sul vivere “a stazioni” nel quale un immigrato è costretto, le cui tempistiche di inserimento (o respingimento) sono scandite nella maggior parte dei casi dalle ottusità, e cattiverie, burocratiche. La pellicola non si impantana in tecnicismi, fogli o carte, ma rimane saggiamente sull’epidermide, lavorando sulle connessioni umane e sulla bontà che spesso risiede negli angoli di periferia. A volte anche sotto corpi burberi e ingombranti come quello di Sylvain Charpentier, che non sarebbe potuto essere più azzeccato nel phisique du role di un ispirato Gérard Depardieu.
E’ Sylvain, tanto possente quanto pieno di insicurezze e rimpianti, il maestro che prenderà Fahim sotto la sua ala e lo condurrà alla vittoria del campionato nazionale studentesco. Nel gioco degli scacchi, mai davvero gioco ma piuttosto una guerra, si rivela imprescindibile imparare l’arte del sacrificio, superstrato metaforico sempre palese e tenuto a mente durante il susseguirsi degli eventi. Viaggiando dalle parti della commedia, non si scade mai nel pietismo o nella ricerca di una lacrima facile. L’intenerimento emotivo si schiude spontaneo e senza forzature nell’osservare le reali peripezie di un padre che finisce costretto a vivere per strada o di un figlio che per stare con lui lo va a cercare nelle bidonville.
L’intento di Qualcosa di Meraviglioso è chiaro e ben definito a partire dalla lettura del soggetto, tratto dal romanzo autobiografico di Fahim. Non vuole insegnare nulla, non vuole neanche creare una vera e propria polemica. Si limita a raccontare una storia tragica con delicatezza e simpatia, toccando le giuste corde senza incappare nel rischio di rigetto bulimico di un genere diffuso e spesso troppo abusato.
Qualcosa di Meraviglioso è nelle sale italiane a partire da oggi 5 dicembre.