Forse una delle ambizioni più recondite di quei videomaker che vorrebbero documentare una storia è il sogno utopistico di diventare invisibili. Una piccola mosca con una cinepresa. Questo perché il cinema sa essere una presenza ingombrante, e l’occhio della cinepresa può diventare un incomodo che crea soggezione nell’oggetto osservato. Per questa premessa, la cronaca narrativa di Punta Sacra (trailer) meraviglia: la regista Francesca Mazzoleni sembra un testimone invisibile di un’intimità che soltanto una mosca con una cinepresa avrebbe potuto filmare.
Siamo a Roma – anzi, all’Idroscalo di Ostia, dove la città di Roma, pur essendo a pochi passi, rappresenta una promessa lontana sulla realizzazione delle ambizioni sul futuro. Quella raccontata da Mazzoleni è una comunità che nel 2010 si è vista sgombrare dalle proprie case costruite abusivamente nei lontani anni Sessanta. Il documentario però non ricostruisce la storia dello sgombro, piuttosto svela le vite e gli ideali della collettività di stampo matriarcale. Ciò che sorprende è il taglio registico, in quanto c’è una ricerca estetica affascinante; quindi il documentario a tratti sembra un docufilm, altre volte invece un film vero e proprio.
Diviso in sette capitoli (In ordine: Mare, Natale, Padre, Madre, Figli, Fede, Festa), Punta Sacra è un ritratto intimo e riflessivo di persone che vorrebbero togliersi di dosso la nomea di «Brutti, sporchi e cattivi» e mostrarsi attraverso la loro effettiva e genuina personalità. La Mazzoleni riesce a catturare dispute sui valori politici, o anche contese più pratiche come possono essere quelle sentimentali, oppure battibecchi più solenni come quello in cui una madre affronta con la figlia il tema sul futuro, sulle opportunità, sull’importanza dello studio (le chiede: «Perché ti arrendi?»).
Il ritratto che si ricava è quello di una comunità determinata e speranzosa, che trasforma un manichino in un angelo e il disagio di una condizione difficile in un’opportunità. La regia della Mazzoleni gira immagini incredibili, di una bellezza che lascia senza fiato; per questo motivo è facile perdonarle alcuni inciampi retorici. Ciò che rimane impresso è l’orgoglio semplice delle persone che si raccontano e si espongono alla macchina da presa. Il loro atteggiamento è quello di rispondere a testa alta alle difficoltà, ma soprattutto alle incomprensioni della società. Una delle donne protagoniste si tatua la risposta a tutti i pregiudizi che subisce la comunità: «Sti» su una gamba e «Cazzi» sull’altra.