Ci troviamo nel Giappone rurale, in un anno non ben definito del periodo Muromachi. Anzi, facciamo un passo indietro. O forse sarebbe meglio dire avanti: siamo in pieno Luglio 1997 e nelle sale di Tokyo è avvenuta la prima visione di Principessa Mononoke (trailer). Il lavoro è stato immenso: il ritorno alla regia di Hayao Miyazaki dopo 5 anni dalla realizzazione di Porco Rosso è maniacale, controlla ogni singolo fotogramma della pellicola. Il suo più fidato collaboratore Yoshifumi Kondō è a capo delle animazioni e, per la prima volta in casa Ghibli, ci si avvale dell’aiuto della computer grafica. Si tratta comunque di una tecnica mista: la maggior parte del film è realizzata tradizionalmente, sono solo 5 i minuti di filmato in cui ci si è avvalsi del digitale.
I due sono stremati: in seguito alla pellicola Miyazaki annuncerà il suo primo ritiro – primo perché durante la sua carriera ne ha annunciati tanti, ma il suo amore per l’animazione è troppo per lasciarlo in pace a godersi la pensione. Kondō è più sfortunato di lui: a 6 mesi dall’uscita del film muore improvvisamente per una dissecazione aortica, i medici diranno che la causa è il troppo lavoro. A lui erano destinate le chiavi dello studio cinematografico d’animazione giapponese più amato al mondo, lui era l’erede prediletto del maestro Miyazaki.
Cosa rimane di questa fatica mitologica? Un capolavoro senza eguali. La storia è semplice se ridotta all’osso: un principe viene colpito da una maledizione che lo porterà ad affrontare un lungo viaggio per trovarne la cura. Ma se scaviamo più a fondo, la sceneggiatura inizia a diventare un trattato di filosofia: i cattivi non esistono, proprio come nella realtà la malvagità pura non esiste; non c’è un sanguinario dittatore dietro all’abbattimento degli alberi della foresta sacra, ma una donna che ha salvato centinaia di donne e di malati restituendo loro grande dignità attraverso il lavoro; dall’altra parte non ci sono animali inferociti e incontrollabili, ma bestie sagge e senzienti che vogliono difendere il loro Dio ad ogni costo; nella bontà di un monaco che aiuta l’eroe a procurarsi un pasto caldo e una coperta si nasconde la bramosia di mozzare la testa ad una divinità.
Ci troviamo davanti alla cruda realtà, ai principi dello yin e yang, l’equilibrio nel conflitto tra natura e uomo, tra bene e male, senza vincitori o vinti. Dietro alla cruda realtà anche il film stesso nasconde l’equilibrio della lotta tra contrari: Principessa Mononoke è anche una favola, una storia d’amore tra un principe dal cuore d’oro e una principessa guerriera, avvolta in scenari mozzafiato con bestie fantastiche e capacità al limite del sovrumano, una maledizione da sciogliere e un lieto fine, un puzzle complesso che nasconde tanti piccoli tasselli significativi.
Lo spettatore occidentale non può che meravigliarsi alla scoperta della cultura giapponese sviscerata attraverso il film. Basti pensare ai Kodama, i simpatici spiritelli della foresta, o al finale mozzafiato nel quale è il sacrificio di un Dio che ci porta alla lieta conclusione e non uno schiocco di dita. È proprio questo che vuole dirci Miyazaki: nella vita dobbiamo necessariamente fare sacrifici per raggiungere i nostri obiettivi. Parrebbe pure una morale un po’ banale, non lontana da quello che direbbe un nonno qualsiasi ad un suo nipotino.
Tuttavia il messaggio è doppiamente valido: in primo luogo si riferisce alla necessità di sacrificare la nostra insensata espansione inquinante ai danni della natura, messaggio naturalista da sempre caro al regista; in secondo luogo è un’automotivazione, un messaggio per sé stesso che Miyazaki ha sempre rispettato. Sacrificando la propria salute e quella dei suoi amici e colleghi, sacrificando il rapporto con suo figlio Goro, sacrificando il suo tempo, non andando mai in pensione, regalandoci ancora messaggi d’amore e di speranza attraverso i suoi occhi di bambino che non smette di sognare, e la sua mente, quella di uno dei più grandi geni del mezzo cinematografico di tutti i tempi.