Ci sono temi che infiammano l’opinione pubblica, che catalizzano l’attenzione e sembrano al centro di ogni dibattito. È complicato toccarli perché si rischia di essere tacciati di cavalcare l’onda mediatica e, soprattutto, di cadere nel melenso. Oggi, qualcosa da maneggiare con cura, è certamente la violenza di genere, riproposta trasversalmente in ogni contesto. Primadonna (trailer), primo lungometraggio di Marta Savina, tratta la storia di Lia (Claudia Gusmano), che per prima, nel 1965 si ribellò al matrimonio riparatore. Quest’ultimo consisteva nell’intaccare “l’onore” di una ragazza, ovvero deflorarla, per costringerla a sposare il proprio violentatore, poiché nessun’altro sarebbe stato disposto a sposare una donna “già consumata”, per citare un’espressione usata dal protagonista maschile del film. La vicenda è liberamente tratta dalla storia di Franca Viola, che si rifiutò di sposare il ragazzo che l’aveva rapita e violentata, andando così contro la prassi consueta.
Se è vero che Savina si è mossa su un terreno sdrucciolevole, l’ha fatto in maniera egregia, senza scadere in commiserazioni inutili, né segnando una linea netta tra buoni e cattivi. La regista, che si è occupata anche della sceneggiatura, ha dato vita a dei personaggi dinamici, che cambiano nel corso della narrazione. La storia che vivono insegna loro qualcosa, non li lascia come li abbiamo conosciuti nei primi minuti, rendendoli in questo modo vivi agli occhi degli spettatori.
La regista sceglie consapevolmente di non mettere in scena la violenza, ma di lasciare che sia chi l’ha subìta a raccontarla, riempiendo lo schermo del solo volto di Lia durante il suo racconto e costringendoci a mantenere lo sguardo sul dolore composto della diciassettenne. L’interpretazione di Claudia Gusmano è centratissima perché l’attrice ha in sé sia il candore dell’innocenza e anche la rabbia di chi viene squarciato da un trauma tanto brutale. È volitiva e combattiva, ma anche testarda e fastidiosa. È una ragazza degli anni ’60 ma potrebbe essere una nostra contemporanea perché, se è vero che il matrimonio riparatore è stato abolito da quarant’anni, la domanda capziosa che il giudice le pone, <<è sicura che non le sia piaciuto?>>, serpeggia ancora oggi nella testa di molti.
Savina non cade nella trappola di raffigurare una martire e nemmeno di demonizzare la controparte. Anche Dario Aita, nel ruolo del ragazzo, è vittima, evidentemente in misura minore, del sistema patriarcale in cui vive, perché nonostante abbia agito in modo del tutto coerente con la prassi comune, è finito in tribunale. Questo inserisce la regista nella frangia del femminismo intersezionale che ritiene che uomini e donne siano oppressi dallo stesso sistema malato e che è quindi solo collaborando che ci si possa liberare da esso.
Altra nota di merito va a Fabrizio Ferracane, che interpreta il padre di Lia, un uomo dolce ma dai modi asciutti, che supporta la figlia senza sovrastarla con i propri desideri. Fa da contraltare la madre, Manuela Ventura, apparentemente inibita da ciò che pensa la gente e che però, nel momento del bisogno, è la spinta propulsiva essenziale per l’emancipazione della figlia.
Sembra che il paesaggio della campagna palermitana abbia un valore simbolico perché è ampio nei terreni di famiglia e fatto di strettoie all’interno del paese. Lia vive in una famiglia contadina e il ruolo che le spetterebbe sarebbe a casa, insieme alla madre, invece la ragazza manifesta la volontà di aiutare il padre nei campi, cosa che le viene concessa dopo qualche contrattazione. Una famiglia, nei limiti del possibile, che si discosta dalla comune prassi per assecondare le inclinazioni della figlia. Lontano dalla serenità familiare c’è il paese, che sembra ruotare attorno alla chiesa. Questa invece di rappresentare la carità cristiana è solo specchio di una società vetusta, più attenta al presunto decoro, che al benessere dei fedeli. Savina concede ai suoi attori tempo e spazio lasciando che questi crescano di intensità durante la scena, aiutata da un montaggio molto efficace a opera di Paola Freddi.
Avrebbe potuto essere il classico film ruffiano, fatto da donne per altre donne e distribuito l’8 marzo, invece riesce a trattare il tema senza fare sconti, ma senza quella patina di respingente pietismo.
Dall’8 marzo al cinema.