Poltergeist – Demoniache presenze (1982, trailer) di Tobe Hooper è un’inquietante favola dall’evidente apparato commerciale che, sulla scia di cult dell’orrore come La cosa (1982) di John Carpenter e Videodrome (1983) di David Cronenberg, racconta tanto il contesto USA anni ottanta social-politico-economico, quanto l’informe senso di alienazione provocato dall’ipnotica televisione accentratrice. Tematiche quest’ultime che in quel decennio sono accompagnate dall’onnipresente immagine della Guerra Fredda; in tal senso il cinema di quegli anni è ripieno di esempi che potrebbero ricondurre ad un comunismo minaccioso nei confronti del capitalismo occidentale (pensiamo al predator proveniente da un altro pianeta nei film omonimi del 1987 e 1990). Ma questa non è la sola immagine.
Il film di Hooper, come anche i suoi fratellastri diretti da Carpenter e Cronenberg, ribalta infatti consapevolmente il fragile equilibrio iniziale (squallido nel caso di Videodrome): la noia della santa istituzione familiare di Cuesta Verde (California) è minacciata dai soprannaturali abitanti del televisore in Poltergeist; la quiete di una base militare americana in Antartide è disturbata da un simbionte alieno ne La cosa; gli occhi allucinati dal sadomasochismo pornografico riprodotto dalla televisione cedono alla nuova carne umano e macchina.
Con Poltergeist il regista Tobe Hooper sposa anzitutto la politica borghese della Metro Goldwyn Mayer reiterando i motivi extrafilmici del contesto americano anni ottanta e muove poi l’attenzione sui quei mostri invisibili che infestano l’urbano e che sono anche accaniti divoratori dell’american way of life. Qui, l’autore di Non aprite quella porta (1974) è senz’altro lontano dal crudele realismo documentario che abbracciava quel cinema indipendente anni settanta ed è al contrario molto più vicino ad una cinematografia mainstream in grado di raggiungere pancia e cuore di un pubblico molto più ampio.
Complici sono sicuramente la patina della produzione targata Steven Spielberg (qui in veste anche di soggettista e sceneggiatore) – l’importanza data ai bambini anche quando non sono protagonisti è sua cifra stilistica ravvisabile ovunque – e le atmosfere bibliche e occulte che attanagliano ogni angolo di sceneggiatura – esoterico e soprannaturale, tra le cose, esplodono al cinema una volta che William Friedkin ha rivoluzionato il genere horror col suo L’esorcista (1973). Pertanto se la tragica parabola del celeberrimo slasher movie classe 1974 conferiva un aspro tono di denuncia alla riflessione sui confini politici fuori città tra il selvaggio e il colonizzato, Poltergeist sposta il conflitto dell’uomo con un nemico (questa volta) invisibile direttamente nello spazio abitante l’apparato sociale per eccellenza: le mura domestiche covano una forza maligna deforme che batte sulle teste degli abitanti.
Non siamo più dunque lanciati tra le pericolosità dell’orlo esterno. In Non aprite quella porta queste erano foraggiate dal relitto cannibale di Letherface che “accoglieva” con motosega la carne figlia e civilizzata della materna America. La mascotte preferita della famiglia Sawyer apparecchiava depravate vendette e punizioni, ma agiva soltanto quando l’urbano sconfinava nel rurale imponendo di conseguenza le sue regole. Gli “spiritelli porcelli” di Steven Spielberg, come anche (tra i tanti) i parassiti de La cosa e Videodrome, attestano invece un radicale cambio di paradigma: il male non attende più lo scavalcamento di proprietà, ma attacca famelico l’oceano invisibile della materia conosciuta una volta che si è annidato entro gli organi istituzionali della casa/rifugio. Nel caso di Poltergeist solo l’amore di una famiglia unita fino alla morte potrà sradicare le forze antagoniste e dare così vita ad una risoluzione quanto mai ottimistica.
Il film di Tobe Hooper si immette sulla scia di quel cinema americano del terrore anni ottanta che porta in seno un’aggiornata politica di denuncia al suo contemporaneo e che dà vita tanto ad opere più di cassetta, come Poltergeist e La cosa, quanto ad operazioni più autoriali, come il viscerale e depravato Videodrome. L’opera di Hooper è il fatidico incontro ravvicinato tra la “cosa da un altro mondo”, messa in scena da John Carpenter in collaborazione con Universal sempre nel 1982, e l’alterazione della nostra ordinaria percezione che David Cronenberg produrrà l’anno seguente all’interno del settore indipendente. Nonostante i tre film operino all’interno di due registri produttivi differenti (l’ottica degli studios e la visione indipendente), è comunque possibile ravvisare il denominatore comune di un certo malessere diffuso operante dapprima sottopelle e che poi si materializzerà con tutto il suo orrore in superficie.
I poltergeist dell’omonimo film chiamano dal televisore e risucchiano gli umani in una dimensione invisibile da cui si può uscire soltanto dopo una doccia di poltiglia e letame; proprio come i demoni della dimensione oscura, anche il simbionte alieno ne La cosa e il parassita umano tecnologico in Videodrome mascherano la loro presenza rispettivamente attraverso la pelliccia di un husky siberiano e il nastro di una videocassetta. Segnaliamo inoltre l’importanza delle mani sia nel film di Hooper che in quello di Cronenberg: se nel primo la piccola Carol Anne Freeling (Heather O’Rourke) tocca il televisore e stabilisce lei un diretto collegamento con la realtà sconosciuta, nel secondo è la mano-pistola dello spazio elettromagnetico che penetra l’ordinario stabilendo lui il contatto/invasione (secondo la prospettiva pessimista di Cronenberg l’unica possibilità di vita dell’uomo è nella morte).
Gli umani sono stati inconsapevolmente ridotti a schiavi zombie dal potere consumistico della televisione. Cronenberg ne vedrà l’organo del post-umano – “lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano” dice il professor Brian O’Blivion – mentre Tobe Hooper e Steven Spielberg ne vedono il potenziale distruttivo di quelle qualità istituzionali fieramente americane, ovvero la famiglia e la religione, che contano più di ogni altra cosa (il purissimo mainstream di Spielberg). Gli Stati Uniti e la famiglia devono pur agire! Sotto questo punto di vista Poltergeist non si risparmia. Oltre alla solita spiegazione sulle motivazioni dell’esistenza di questi spiriti – la casa della famiglia Freelings protagonista, così come l’intero complesso edilizio del quartiere, cresce su un vecchio camposanto maledetto – e al di là della sua aspra critica nei confronti del consumismo allucinatorio statunitense, Poltergeist nasconde infatti una struttura narrativa che indaga lo slancio titanico dei padri e delle madri d’America.
La lotta contro i demonietti è infatti l’occasione per provare la redenzione di Steve Freeling (Craig T. Nelson) e l’amore incontaminato di Diane Freeling (Jobeth Williams) per la dolce Carole Anne e il piccolo Robbie (Oliver Robbins). I padri del quartiere, per quanto buoni e premurosi, sono coatte personalità che urlano e sbraitano per vedere la partita di football – i vicini dei Freeling rubano loro il segnale via cavo – e che hanno alzato le mani sui bambini almeno una volta in precedenza – questa è una rivelazione, forse troppo casuale per come è inserita a livello di sceneggiatura, che funziona soltanto da snodo narrativo per quando la madre Diane si lancerà nel wormhole col fine di salvare la figlia rapita durante sequenza della medium.
Tuttavia, lascia un sapore amaro vedere come alla fine l’unico personaggio che goda di un soddisfacente conflitto interiore sia Steve; venendo infatti a conoscenza che la figlia Carole Anne teme di più il potere del padre, il padre protagonista è così rivestito di un’aura relativamente più minacciosa, ma di sicuro più umana, che aggiunge un po’ di salato a quella fastidiosa patina al caramello che impera su molti film di Spielberg. Diane è di fatto un ritratto falso e demotivante di madre che sempre coccola i pargoli e che poi lascia la figlia più grande Dana (Dominique Dunne) nelle grinfie di un imbarazzantissimo catcalling. Il personaggio della mamma è calzante dunque soltanto nei sogni di un maschio su cui pesa enormemente il complesso di Edipo.
I figli sono le anime pure che girano felici in bicicletta (la famosa immagine spielberghiana tratta da E.T. l’extraterrestre sempre del 1982) e che sono fastidiosamente impotenti di fronte a tutto e tutti. Nonostante la loro inutilità offensiva gli angioletti sono investiti di un’alta dose di responsabilità teorica. A livello di sceneggiatura infatti la prole da massacrare apre alcune delle danze più importanti: Carol Anne scopre i poltergeist del televisore e ha lo strano potere di parlarci; Robbie è il primo a vedere nell’albero maestro una minaccia per la casa ed è anche l’unico a combattere la materializzazione in clown assassino degli spiritelli maledetti. I bambini sono pertanto i custodi di un ancestrale segreto che gli adulti, degradati al mero ruolo di protettori, non riusciranno mai a comprendere appieno. I bambini sono dunque curiosi e investiti da uno shining misterioso e malvagio.
La prima ad avvertire una strana presenza è l’inquietante Carole Anne all’interno della suggestiva scena iniziale che ha il compito di mostrarci la futura casa delle malefatte; il risveglio traumatico di tutta la famiglia comincia infatti con la bambina che, a metà tra la bambola assassina (dal film omonimo diretto da Tom Holland nel 1988) e Danny Torrance (dal capolavoro Shining diretto da Stanley Kubrick nel 1980), scende le scale e si dirige verso il televisore con quelle sue scarpette rosso sangue e quel suo vestitino blu. Da questo punto del film in poi la crescente suspense da incubo incombe sui Freelings!
Sulla scia dei loro percorsi critici il regista Tobe Hooper e il produttore soggettista sceneggiatore Steven Spielberg realizzano, all’epidermide, una favola anni ottanta sull’importanza indispensabile della famiglia e dei figli e, in profondità, una satira orrorifica sulla condizione social politico economica degli USA. L’intero film ribalta il mito americano della casa come ambiente sicuro e accogliente e lascia che i demoni televisivi del progresso mettano costantemente alla prova l’amore genitoriale. Famiglia e religione rimangono le coordinate di una vita retta e felice… e il televisore rimane fuori casa!
Ogni volta che in televisione suona l’inno americano, i poltergeist si manifestano lasciando che l’orrore e la sorpresa prendano il sopravvento: l’America ha chiamato i mostri e li ha lasciati entrare nelle case. La tempesta che terrorizza la ridente cittadina di Cuesta Verde e che nasconde il risvegliarsi dei morti da sotto il camposanto ricorda le piaghe d’Egitto delle tenebre e delle rane; Spielberg veste di biblico il suo racconto e punisce l’America repubblicana di Donald Reagan; il cimitero su cui sorge il tranquillo quartiere residenziale e che ospita il risvegliarsi dei dannati è infatti un riferimento al marcio degli sgravi fiscali e speculazioni edilizie durante il mandato del quarantesimo presidente degli Stati Uniti. Un altro argomento d’interesse è la stessa dimensione oscura che si carica di un peso non indifferente, in particolar modo nella scena della medium Tangina (Zelda Rubinstein); in quanto lato oscuro della buona religione, l’occulto si dimostra il cammino da non prendere se non si vuole incappare nello zampino del diavolo; la televisione, seguendo questo ragionamento, è la mela dell’Eden e dunque lo strumento maligno che da sempre aizza un gran numero di tentazioni negli umani.
Poltergeist – Demoniache presenze rimane tutt’oggi un piacevole prodotto di quell’ormai lontani anni ottanta, in cui la tv allucinatoria svolgeva un ruolo accentratore. Il film non crea più quell’effetto da terrore puro, al contrario del collega L’esorcista o del figlioletto omonimo del 2015 diretto da Gil Kenan (eccezion fatta per due scene di mostri, una delle quali è molto vicina a La cosa di Carpenter), ma è sicuramente una cova di interessantissime tematiche da sviscerare. Primi fra tutti l’America e quei capisaldi di famiglia e religione che a stento riescono a morire.
Il cult firmato Hooper e Spielberg spegne quaranta candeline quest’anno.