“La cosa che amo fare di più al mondo è l’attore, essere diretto. E la direzione di Matteo è una felicità per tutti, lascia totalmente liberi e allo stesso tempo conduce, e come una fusione di bellezza. Ti porta per mano ed è una cosa bellissima”. Così mi risponde Roberto Benigni alla domanda “quanto hai trasmesso di Fellini a Garrone?” in una presentazione dove tutto sembra perfetto, e le domande sono maggiormente rivolte a Benigni. Forse perché sembrano passati pochi mesi dalla vittoria degli Oscar con La Vita è Bella. L’attesa per lui è tanta, anche a causa della riduzione della sua attività nello spettacolo negli ultimi anni. Prosegue: “Per quanto riguarda gli altri Pinocchio, è un progetto che mi ha accompagnato tutta la vita: mia madre mi chiamava “Pinocchietto” sin dai compleanni, e così anche Fellini, che ha pensato mille volte di fare un Pinocchio con me, disegnandomi in tutte le maniere possibili”.
Non possiamo ovviamente immaginare i risultati artistici che la pellicola Fellini/Benigni sul burattino avrebbe ottenuto. Possiamo solo immaginare l’eredità che il regista riminese ha lasciato nell’immaginario collettivo nell’alveo del cinema italiano. Pinocchio (trailer) ne è la dimostrazione materiale. Pur non rifacendosi ad una ‘fellinizzazione’ delle cose, dimostra le ampie abilità di artificio del visibile come prolungamento dell’immaginazione, oggettificando l’irrazionalità e la fantasmagoria come elemento chiave della settima arte. Matteo Garrone si tiene lontano dalle trappole del realismo compiaciuto, vittimista e inerte tipico nei film di ambientazione storica del cinema italiano
Il confronto con la precedente trasposizione di Benigni (di certo non una delle sue regie più riuscite) sembra inevitabile. Eppure dopo i primi minuti di film questa voglia di confronto sembra svanire, visto il trasporto che il trucco, il sorprendente make-up e la scenografia riescono a creare, mandando il racconto di Collodi in una dimensione gotica, iperrealista e allo stesso tempo iperimpressionista. Di sinistra seduzione l’immagine decadente di Geppetto, un Benigni in forma ormai spoglio della sua maschera folle e allampanata e più simile ad un tardo Eduardo che recita in un’opera di Shakespeare. Efficacissimi i farfugliamenti verbali del Giudice (che contrariamente alla fiaba e alle altre trasposizioni non arresta Pinocchio) e del severissimo maestro di scuola. Più sbrigativa, forse perché fedele all’immaginario ludico del periodo d’ambientazione della storia, la descrizione del Paese dei Balocchi, luogo di perdizione di un bambino di legno ormai assunto alla perdizione del nomadismo.
Quello di Pinocchio è un verismo che diventa gotico. Grazie al suo forte impatto visivo il film ha tutte le carte in regola per la proiezione nei più sfiziosi multiplex e cinema IMAX degli Stati Uniti. L’ambientazione del landscape collodiano, curata dal supervisore Massimo Cipollina e soprattutto dal truccatore Mark Coulier, dona al film la configurazione di un universo immaginario, di uno statuto storico idealista. Il mondo che circonda Pinocchio non è più un’edulcorata Italia oleograficamente preindustriale bensì una ben più abbagliante Terra di Mezzo di chiara ispirazione tolkieniana. Quindi non un’opinabile trasposizione immaginaria del romanzo d’avventura settecentesco, ma l’adattamento di un testo fantastico che attua già di per sé un immaginario figurativo forte proprio per il sostanziale rovesciamento della realtà terrestre
Nonostante questa coraggiosa scelta di messa in scena Pinocchio non mette in secondo piano l’omaggio al cinema, almeno quello più virtuosamente visionario di matrice americana. Da Tim Burton alla motion capture di Steven Spielberg, il citazionismo nel design visuale è ricco e soddisfacente. Non manca nemmeno un tocco di Terrence Malick nella messa in atto della dimensione naturalista. Sperando che quest’avventura produttiva possa finalmente convincere il cineasta statunitense ad assoldare Benigni come eroe del suo prossimo film