Siamo in pieno luglio e il caldo estivo è sempre più insopportabile. Se pensate di passare quasi due ore in relax per sfuggire agli sferzanti raggi del sole, Piggy (trailer) non vi rinfrancherà neanche per un secondo. Ambientato nell’afosa campagna spagnola dell’Estremadura, regione sud-occidentale del Paese, il nuovo angosciante film di Carlota Pereda si basa sul cortometraggio omonimo del 2019 della stessa regista.
Protagonista della storia è Sara (Laura Galàn), un’adolescente in sovrappeso che aiuta i genitori nella macelleria di famiglia e viene costantemente presa di mira dalle compagne di scuola per la sua obesità. Le coetanee (Maca, Rochio e Claudia) le hanno affibbiato il nomignolo piggy (cerdita in originale), associando la sua condizione fisica ai maiali che i genitori uccidono ed espongono al bancone ogni giorno. Quando le tre ragazze verranno improvvisamente rapite da un misterioso uomo di fronte agli occhi spaventati di Sara, nel paese bigotto e retrogrado iniziano a circolare voci sull’accaduto, che solo la protagonista ha visto davvero.
Il film riconfigura alcune caratteristiche degli horror anni ‘70 all’interno di una sensibilità contemporanea, portando al centro di una storia sul conflitto generazionale e sul bullismo un argomento tabù come il body-shaming. Esattamente come un altro film recente che omaggiava l’horror di exploitation di quegli anni (X: A Sexy Horror Story, di Ti West, 2022), un punto di riferimento per Piggy è senza dubbio Non Aprite Quella Porta (di Tobe Hooper, 1974). Da esso prende in prestito il calore torrido del mondo rurale, che avvolge lo spettatore grazie a dettagli dell’ambiente desertico e ad “appiccicosi” effetti sonori spazializzati; la dimensione slasher (che nel film di Hooper anticipava di diversi anni la vera e propria diffusione di questo sottogenere), ma soprattutto la figura del killer. Il rapitore delle bulle di Sara ricorda per certi versi Leatherface: la sua pressoché totale afasia, che lo fa esprimere solo con grugniti ed urla, lo rende più simile ad una bestia che a un uomo, ed i suoi comportamenti sembrano delineare una certa instabilità mentale.
Sara, umiliata dai suoi coetanei e inascoltata dagli adulti, è turbata e attratta (anche sessualmente) da questa figura senza nome e senza parola: la sua brutale violenza, infatti, esprime catarticamente quei desideri di vendetta che lei costantemente sopprime nel pianto e nei vizi, incapace di reagire alle vessazioni che subisce. Alla fine, però, si dovrà confrontare con la possibilità di diventare come lui, cioè abbracciare l’immagine mostruosa che la società ha costruito su di lei, o rifiutarla affermando la propria libertà, accettandosi per come è davvero.
Una peculiarità del film è che gran parte dell’orrore, in realtà, non proviene dalla sua matrice splatter convenzionale, relegata solo ad un esplosivo finale. La vera violenza, più subdola e penetrante rispetto a quella fisica, è quella psicologica perpetrata quotidianamente dalla società nei confronti della protagonista. Oltre al bullismo delle ragazze popolari della scuola, la cui ostentazione sui social di una vita da favola la frustra profondamente, è anche il mondo adulto a farsi suo nemico. Distante e severa, la madre Asun (Carmen Machi) la tormenta con i suoi continui rimproveri e non si mostra mai comprensiva di fronte ai suoi dolorosi silenzi.
Questo rapporto oppressivo madre-figlia è un punto di contatto con un altro cult dell’orrore, Carrie (di Brian De Palma, 1976), da cui riprende ovviamente anche la parabola catartica di maturazione della protagonista. Asun è il simbolo di un mondo adulto ipocrita e bigotto, più attento all’apparenza di una realtà finta e costruita (la seduzione per le telenovelas, la fiera rivendicazione dell’onore della famiglia) che alla salute psicologica dei figli. In un certo senso, il vero carnefice del film non sembra essere il misterioso rapitore, ma la società, che crea aspettative di perfezione e opprime tutti coloro che non rispettano gli standard, generando così dei mostri.
Nelle sale dal 20 luglio.