Nel corso della terza giornata della 60esima Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro il concorso riflette in qualche modo sulla materialità e sulla trascendenza, su esistenze concrete e tangibili e presenze confutabili.
Chloe Delanghe e Mattijs Driesen presentano un horror sperimentale ispirato a una serie di eventi paranormali che hanno avuto luogo nei primi anni Settanta nella cittadina inglese Hexham. Hexham Heads ci ricorda che la paura non risiede nella prova dell’esistenza del paranormale, non nella manifestazione in sé (a cui potrebbe, in fondo, seguire un’elaborazione e l’adottamento di contromisure psicofisiche), ma nel mistero irrisolvibile, nell’invisibile, nella presenza suggerita. Un’ambiguità perturbante che si alimenta per la tendenza tutta umana a credere negli spettri, a vedere ogni luogo come potenziale ricettacolo per attività paranormali, a riempire il vuoto
Concorre un’opera di suggestione e trasmissione del presagio che Chloe Delanghe e Mattijs Driesen affidano con cognizione di causa al racconto e alla sua potenza evocativa. I registi tornano, insomma, all’oralità prefilmica e pre-scrittura, al racconto dell’orrore che si tramanda di generazione in generazione; passano poi abilmente dalla terza persona introduttiva alla prima persona che immerge e rende credibile. Mandano avanti, poi, una serie di scatti che insinuano la contiguità, che suscitano il brivido perché frammentano la casa in porzioni in cui il male sembra latente, scorci ideali per appiccicargli sopra il fantasma, camere scrutate da dietro la soglia di porte socchiuse, poi specchi che danno l’impressione di essere sempre a un passo dal riflettere, dal captare l’extrasensoriale.
Hexham Heads medita poi sulla natura spettrale e sul mistero intrinseco della fotografia, sulla reazione chimica che replica e ripresenta e fa riapparire sagome che non sussistono; utilizza il rosso della camera oscura un po’ per ribadire la connessione, un po’ per richiamare l’aspetto sanguinario e violento sempre accennato e mai mostrato.
Sul versante opposto, con il cortometraggio Cada Gesto (trailer), Valentina Alvarado Matos offre un ritratto intimo della città di Barcellona attraverso la rappresentazione discreta di una comunità che pensa facendo e fa pensando, penetrando negli angoli di creatività e manifattura, di un artigianato femminile passato in rassegna nel suo generare e trasmutare, nella praticità di mani levigate, rugose, callose, soffici; mani che accarezzano, strappano, strofinano, attorcigliano.
Mani protagoniste come prolungamento e manovale, funzionari corporei deputati a plasmare la materia, a trasformarla come a detenere proprietà alchemiche. Mani quali mere esecutrici che pure nella segmentazione e nella dissezione per mezzo dello sguardo filmico (che è anche osservazione scientifica), nel loro divenire oggetto del profilmico, sembrano animarsi di vita propria e slegarsi dall’individuo, tanto da apparire persino più capaci, troppo efficienti per appartenere a proprietari goffi e imperfetti.
Mano, che nelle sue terminazioni, nei polpastrelli, accoglie una grande quantità di recettori tattili, si fa veicolo più diretto per una connessione con le cose, per sentirsi terreni. La mano come mediatore primario tra l’essere e gli elementi, principale via d’accesso al mondo sensibile, forse unico strumento per certificare davvero l’esistenza delle cose.
Allora cada gesto, ogni gesto, diventa espressione pura, forse persino più elevata nella sua immediatezza rispetto alla comunicazione orale perché ogni movimento lascia traccia immanente, concreta, sperimentabile; e alla mano si consegna forse il primato sul resto del corpo, la si intercetta in una vitalità che non provoca una nausea di sartriana memoria ma la consapevolezza di poter incidere e percepire ed essere materia.