La quarta e ultima giornata del Concorso a Pesaro si svolge all’insegna del mondo ispanofono, prima con la regista spagnola Elena Duque e il suo Ojitos Mentirosos e poi con La laguna del soldado, lungometraggio del colombiano Pablo Alvarez Mesa.
Si torna bambini attraverso le immagini di Ojitos Mentirosos (trailer), o meglio si riacquistano gli “occhietti bugiardi” di un bambino, quelli che trovano sempre il trucco dietro al numero di magia e se ne impadroniscono per rifarlo a loro volta. E così accade anche allo spettatore, che assiste allo svelamento dei trucchi del cinema avvolto da un’atmosfera bambinesca e coinvolto nel gioco della regista.
Quasi ogni aspetto del medium cinematografico è preso in esame e scomposto come se lo si dovesse spiegare a un bambino, ne risulta quindi una sorta di buffa presa in giro del cinema unita però a una più profonda riflessione sui suoi meccanismi più basilari: l’immagine fotografica e quella in movimento si fondono con la pittura e il disegno ricalcando il modello del cinema delle origini, sprazzi di giallo, ciano e magenta coprono improvvisamente la scena e rimandano ai colori primari da cui scaturiscono tutte le sfumature cromatiche, e più volte vengono posti specchi davanti alla macchina da presa come rimando alla profondità di campo e agli espedienti per ottenerla.
Tutto nel corto della Duque è un rimando e un affettuoso omaggio al cinema, ma anche alla città di Madrid, città natale della regista che nella serie di immagini di collage diventa forse il personaggio principale di questa piccola lezione di cinema per giovani (o giovanissimi) registi.
Ultimo ma non per importanza arriva alla Mostra il documentario La laguna del soldado (trailer) di Pablo Alvarez Mesa, una narrazione paesaggistica del territorio colombiano del páramo e degli ultimi due secoli della sua storia. Si tratta di un ecosistema presente in alcune regioni a ridosso delle Ande e coperto dalle caratteristiche erbacce perenni chiamate frailejones, un’area che apparentemente non avrebbe nulla da dare ma che per le inevitabili mire espansionistiche di fine Settecento finì per diventare l’oggetto di una campagna coloniale spietata, quella del comandante di origini spagnole Simon Bolivar.
Diverse voci narranti portano avanti un racconto sommesso e malinconico di quello che è stato il paramo negli anni della conquista da parte degli spagnoli e quello che è ora, considerando due secoli di storia coloniale e i soprusi politici e ambientali dei tempi più recenti. Protagonista visivo del lungometraggio è il paramo nella sua maestosità e nel suo spirito indomabile: una serie di sequenze raffiguranti le diverse parti di questo misterioso ecosistema si alternano a scene in cui vediamo gli abitanti del luogo alle prese con attività quotidiane di grande fascino, come la lavorazione dei frailejones. Le immagini grandiose del paramo risultano così in netto contrasto con la sua tragica storia di sottomissione e con le voci di alcuni dei narratori spezzate da una tristezza insanabile.
«Non c’è sostenibilità ambientale senza giustizia ambientale e non può esserci giustizia ambientale senza giustizia razziale.», e nel paramo non c’è mai stata nessuna delle tre, almeno negli ultimi due secoli: se prima infatti si trattava di cercare l’oro nascosto che stava solo nella convinzione cieca degli invasori, ora la violenza sta nel disboscamento massiccio di ampissime fette di territorio, come se in assenza di grandi tesori nient’altro potesse più esistere nel paramo. Il ritratto di Alvarez Mesa riesce a toccare corde profondissime dell’identità umana con una delicatezza disarmante e ad affrontare la questione ambientale con una prospettiva storico-sociale di grandissimo interesse.