La 60esima Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro offre, come nelle precedenti edizioni, una programmazione più che variegata: a cominciare dal Concorso, che prevede una selezione di 19 film da tutto il mondo, troviamo anche numerosi omaggi come quelli al critico Adriano Aprà, direttore storico della Mostra scomparso da poco, e al regista palermitano Franco Maresco, un focus sui registi Arcangelo Mazzoleni e Brigid McCaffrey e rassegne tematiche dedicate agli animatori italiani e al cinema coreano.
Ad aprire il concorso è Radiance di Shuhei Hatano. Contestualizzato e racchiuso nel desolante periodo di una pandemia che isola, che esenta dalla comunicazione interpersonale diretta, dall’istantaneità della trasmissione vis a vis, il film riscopre e riabilita una forma epistolare che si potenzia e si espande col supporto delle immagini. Quella del regista giapponese è missiva che approda al dialogo interiore, che si ibrida con l’espressione diaristica per riflettere sul tempo e sulla compromissione dell’attività mnemonica, per sfociare in una presa di coscienza della fallacia del tentativo di afferrare il flusso (non è un caso se Hatano sceglie il gorgoglio dell’acqua come unico suono ambientale da affiancare al cinguettio degli uccelli).
E allora sopravviene una smania di immortalare, di imprimere ogni momento, di ricordare tutto, di osservare le cose con la mediazione di un obiettivo che reifica e svela insieme, che si riscopre strumento puerile, unico capace di “reinfantilizzare” chi lo usa. “Filmo, dunque osservo” come vero assioma sostitutivo e surrogato di un’infanzia investita dalla curiosità della visione, dall’attenzione per il mondo circostante, condizione esemplificata dalla figlia del regista che è sia soggetto principale del cortometraggio sia metro di paragone, motore di un’autoanalisi che guarda allo scrutare genuino dei più piccoli come a un’utopia della percezione.
Lo scorrere del tempo come fil rouge: Slow Shift (trailer), film diretto dalla regista Shambhavi Kaul, continua in qualche modo la riflessione sul tempo sfumando il ricordo fino a trasformarlo in reminiscenza spettrale. Siamo nel territorio del film di paesaggio, con le brulle distese di Hampi che accolgono le rovine di una civiltà del XIV secolo, ultime tracce di un’umanità che la cineasta indiana vuole estirpare.
Un vero e proprio attentato all’onnipresenza della figura umana, a un antropocentrismo che adesso non trova spazio in uno scenario pre-umano, in un paesaggio ancestrale dagli echi kubrickiani che estromette l’uomo e suggerisce una dimensione ultraterrena, oltre-mondo e oltre-tempo. Niente monolite però, niente conflitto e niente civiltà, per un cambiamento che comunque resiste ritrovandosi nel movimento “magico” di massi che franano, si muovono, rinnegano l’immutabilità, che fanno da contrappunto alla sospensione temporale di un panorama post-umano cristallizzato.
Shambhavi Kaul sovverte l’ultraterreno classico, quello dell’immaginario cinematografico, per dar vita a una veduta quanto più possibile deumanizzata; ci lascia dentro dei primati che non possono che evocare l’espulso, ma lo fa per provocare, per spingere lo spettatore in un anelito disperato a rivedersi, a riconoscersi nei movimenti e nelle posture, persino a contare arrogante su una latenza evolutiva di cui gli ominidi vengono incaricati.
All’assenza umana, ad una vitalità sottratta e riassegnata a cose inanimate, risponde un film che indugia sui corpi e sulla connessione naturalistica, che instaura un dialogo tra organismi che parlano la stessa lingua fatta di vasi sanguigni e condotti linfatici, di tessuti e cellule, di pelle e corteccia. In Farsi Seme, Anna Marziano insiste su movimenti di macchina discreti, panoramiche orizzontali e verticali che si fanno scansione delicata e comparativa che percorre braccia e poi fronde, poi ancora mani e dita che diventano propaggini, ramificazioni, rami che si fanno carnosi.
È un montaggio alternato che aggrega, lega senza soluzione di continuità, restituisce l’uomo alla natura e al proprio corpo, al suo essere relazionale, organico, nutriente e nutrimento, al suo farsi seme e inconcepibile al di fuori dell’interdipendenza primigenia, della compenetrazione tra esseri viventi.
Il Concorso prosegue con il primo dei tre film statunitensi della selezione, Terminal Island della regista Samantha Drake. Si tratta di una rappresentazione del tutto inedita della città di Los Angeles, che da luogo di massima rappresentanza della collettività californiana diventa sede di un’angosciante desolazione. Le grandi strade e i paesaggi sconfinati della città passano attraverso le lenti deformanti di uno sguardo postapocalittico e a tratti futuristico (immediata è l’associazione alle immagini delle grandi piazze deserte di De Chirico); la città sembra disabitata ma prende vita dalle composizioni fotografiche della Drake, che in qualche modo la antropomorfizza: così un grande edificio ovale ripreso dall’alto diventa l’occhio vibrante del mostro californiano e le palme, alternate alle pale eoliche, le sue possenti ciglia.
Se all’inizio del cortometraggio abbiamo il dominio visivo sui paesaggi deserti della città, alla fine si ha la sensazione che sia quest’ultima a guardare noi e a prendere vita da un immobilismo solo apparente. L’impressione è che la regista voglia porre l’accento sulla questione ambientale e le conseguenze dell’urbanizzazione massiccia della capitale californiana e per farlo senta il bisogno di estromettere la sua causa primaria, ovvero l’uomo, e dare voce (e volto) al territorio, che prende dunque le sembianze di una creatura imponente e dalle radici solide.
Il cortometraggio di Sam Drake si inserisce all’interno di un genere particolarissimo, quello della narrazione urbana, di grande interesse per la giuria di Pesaro, che anche lo scorso anno aveva selezionato un film con una ricerca di forma e contenuto simile (The Newest Olds di Pablo Mazzolo), e si dimostra un esperimento molto accattivante.
In chiusura della prima giornata del Concorso troviamo il primo lungometraggio della selezione, Small Hours of the Night (trailer) del regista singaporiano Daniel Hui. Siamo nella Singapore degli anni Sessanta e assistiamo all’interrogatorio di una donna in una stanza buia con una luce oscillante. Nonostante l’apparente calma dei due personaggi, la donna e la sua controparte maschile, il forte bianco e nero intermittente dà un senso di inquietudine a tutta la scena, che arriva a un punto di rottura con l’accensione di una luce bianca fortissima e il conseguente impazzimento della donna.
Il sottile equilibrio instaurato dall’oscillazione della luce e dal racconto imperturbabile della donna dà accesso a una dimensione narrativa completamente nuova: per un attimo il clima di controllo della sequenza precedente crolla e subentra il caos dato dal delirio della protagonista, ma non ci vuole molto prima che tutto rientri nei ranghi. La follia femminile è contenuta, il ritorno alla razionalità della parola è impellente, questo comporta una crisi. La donna torna a parlare ma ora l’oscillazione della luce è sostituita da quella del suo sguardo, che evade il confronto diretto e si divide tra due oggetti, un orologio in alto alla sua sinistra e uno specchio in basso alla sua destra: tempo e identità, questi due i cardini attorno a cui ruota la ricerca del regista singaporiano, una ricerca che si svolge su due livelli, quello psicologico e quello materiale della storia di Singapore.
L’interpretazione di Vicki Yang Yanxuan è fulminante e di una naturalezza sconvolgente, più che mai necessaria in una rappresentazione dominata dalla sua immagine e in cui il corpo parla un linguaggio a parte rispetto a una psiche estremamente controllata. «Così come la durata, che non può essere segmentata e tracciata nello spazio, le identità non sono fisse; sono nebulose, mutano e ondeggiano, e attraverso il ripiegarsi e l’oltrepassare i loro confini creano la Storia». Daniel Hui sceglie la durata e con essa la trasformazione dell’immagine, e compone una Storia d’amore bellissima.
Di Paolo Falletta e Claudia Teti.