Nella cornice della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, incasellato all’interno della Korean Week e di una collaborazione con le realtà produttive coreane che si reitera fin dal pioneristico viaggio dello storico direttore Adriano Aprà nel 1990, c’è spazio per una variegata rassegna sul cinema sudcoreano in collaborazione con il Busan Cinema Center. Titoli di formato e genere differenti ma accomunati dalla location e dai luoghi di produzione, con Busan finalmente in risalto in risposta a un accentramento esclusivistico che ha spesso visto la capitale Seul monopolizzare l’industria e la narrazione cinematografica (ricordando da vicino la situazione italiana).
Si parte con il più grande successo al botteghino sudcoreano di questa prima parte del 2024 (capace di sovrastare un kolossal come Dune – Parte 2), Exhuma (trailer). Siamo a metà tra il film dell’orrore e il supereroistico, con possessioni e abili sciamani e geomanti, con l’occulto che incontra veri e propri eroi dell’esoterico, specialisti del male con i crismi del vendicatore. Una tensione verso il genere che si riconferma nella deriva “villainistica” assunta dalla forza antagonista, un’entità malvagia antica e polverosa che riporta alla mente l’Apocalisse di marvelliana memoria, che rimanda – grazie ad una prima manifestazione spettrale di minor forza e pericolosità – ai meccanismi narrativi videoludici che gli consegnano i contorni del final boss.
Nella segmentazione in due parti narrativamente ben definite – con un primo caso paranormale che gli agenti del bene sono chiamati a risolvere – il film diretto da Jang Jae-hyun lascia forse trasparire un refuso di forma (la storia sembra quasi pensata per la serialità), un’episodicità che scolla un po’ troppo il primo nucleo dal secondo anche in termini di toni (l’horror puro della prima parte si contamina di qualche venatura action), ma acquisisce profondità nell’attenzione per i riferimenti folkloristici, nella prova attoriale dei suoi protagonisti (su tutti il Choi Min-Sik di Oldboy) e nell’attualissima rappresentazione dello spettro come ideale abitatore e navigatore di una rete senza limiti spaziali e di movimento, come prodotto di una recisione delle distanze e di una compressione degli spazi che è caratteristica cardinale della contemporaneità del collegamento immediato.
Tocca poi a Laid-Back Town, cortometraggio diretto da Jeon So-yeung che indaga i ritmi di una cittadina cristallizzata nella fissità di azioni ripetute (il personaggio di Hancha è perennemente inquadrato nell’atto di correre), in un eterno ritorno quotidiano che la giovane Jiwa sembra cominciare ad accusare. Jiwa vuole seguire i passi di Minsik, interesse amoroso adolescenziale trasferitosi in città, eppure la monotonia delle sue giornate pare averle trasmesso un immobilismo decisionale che persino nella quota rivoluzionaria di una scelta sembra far capolino: Jiwa vuole andar via, ma non riesce a spiegarsene le ragioni. Il tema della fuoriuscita viene però declinato nella sua apparente impossibilità e insieme nel suo innescarsi e divenire una catena, nel miracolo dell’uscire dal nido espanso e dello scardinare il dogma.
Segue Mora di Kim Jin-tae, commedia degli incidenti e degli imprevisti che si fregia di una sottile critica alla difficoltosa mobilità sociale sudcoreana, puntando il dito contro le difficoltà che i meno abbienti sono costretti ad affrontare e contro un darwinismo sociale che era poi il tema di fondo del capolavoro del più affermato Bong Joon-ho, Parasite, che mandava avanti un’idea quasi verghiana della scalata e dello switch di status e li dipingeva nella loro inattuabilità. E i personaggi di Kim Jin-tae hanno lo stesso cinismo e la stessa spietatezza, sono anch’essi approfittatori e sanguisughe per necessità. A situazioni comiche mai del tutto efficaci nel suscitare la risata fanno da contraltare un’apprezzabile intensità drammatica e un finale dolceamaro che non arriva alla risoluzione del conflitto esterno, non si lascia andare al lieto fine perché quella supportata da Kim Jin-tae è una tesi che richiede coerenza e a cui non può voltare le spalle e che trasforma Mora in una tragicommedia che trova la quadra nella gestione e nell’analisi dei rapporti familiari e sentimentali.
Il tema viene in fondo esplorato anche da Kim Yong-kyun nel drammatico Picnic, che ha premesse simili ma va verso una direzione opposta con una dolcissima storia di profonda amicizia tra due donne in età avanzata che diventa occasione per riflettere sulla morte e sui malanni ammantandoli di dignità e nobiltà, su un ineludibile decadimento vissuto con malinconia ma direttamente proporzionale ad una consapevolezza che si acuisce, con un senso che sbiadisce e si colora allo stesso tempo. Ci si muove tra souvenir di una vita passata che si riaffaccia e momenti sparsi di una riconciliazione propizia di occasioni per fare un lucido resoconto sulla propria vita, su quanto è svanito e su quanto è rimasto. Con le interpretazioni di Na Moon-hee e Kim Young-ok che scaldano il cuore, Picnic strazia e conforta, disunisce e ricompone, rifiuta e insieme accetta la fine senza glorificarla e senza condannarla.