Il terzo pomeriggio del Concorso della Mostra di Pesaro si presenta ricco e variegato, sia geograficamente sia sul piano formale. Si parte con Bleared Eyes of Blue Glass del giovanissimo regista coreano Kyujae Park. Il cortometraggio, liberamente ispirato al romanzo di Virginia Woolf The Waves, è una dichiarazione d’amore per la letteratura: il regista apre il film con una citazione tratta dall’inizio del romanzo e traduce poi in immagini estremamente suggestive le parole dell’autrice. Attraverso l’uso del bianco e nero misto al colore e l’apertura del diagramma fotografico, l’immagine risulta offuscata e poco chiara, come se stessimo guardando con l’occhio semichiuso di una persona in dormiveglia. Kyujae Park riesce abilmente a riprodurre le atmosfere intime e profonde delle opere della Woolf e ad interpretare, usando i mezzi del cinema sperimentale, il più sperimentale dei suoi romanzi.
Ci si risveglia dai paesaggi annacquati di Bleared Eyes of Blue Glass catturati e commossi dalla potenza narrativa del “corto epistolare” di Ardélia Istarú Pruebas. Allo scorrere di filmati e fotografie di spazi urbani costaricani e parigini, paesi tra cui si divide la vita delle due protagoniste (la stessa regista e sua madre), sentiamo le due voci femminili immerse nella lettura di alcune lettere che fanno emergere un passato inedito o forse semplicemente dimenticato, quello della violenza subita dalla madre. Straniera in un paese troppo diverso da quello di origine, la madre (portoricana) rivanga le ferite degli anni trascorsi a Parigi con il compagno e futuro padre della figlia e le delusioni che la portano a lasciare per sempre la grande città. Precisamente è la madre a leggere, mentre la figlia, che le lettere le ha già lette, aiuta la donna a ricordare una parte della sua vita che ha convenientemente scelto di dimenticare e a rendersi conto di quanto con quel vuoto abbia salvato solo se stessa. Perché il razzismo c’è ancora e la figlia che lo vive sulla propria pelle più giovane ne inserisce le prove all’interno della lettera: la memoria della madre è selettiva, dimentica le violenze del marito ma sa benissimo che nessun uomo l’ha mai calpestata sulla metro senza neanche voltarsi. Silenzio. È un colpo troppo duro per la madre rivivere la violenza e scoprire quella sconosciuta vissuta dalla figlia. Celato dietro all’amarezza della storia c’è però un gioco che potrebbe passare inosservato: Ardélia Istarú ci dà infatti l’occasione di assistere a uno dei processi fondamentali della realizzazione di un film, la riscrittura (o adattamento), e quando ci si rende conto del trucchetto non si può fare a meno di esserle grati.
Con Bloom di Helena Girón e Samuel Delgado siamo catapultati nelle profondità del fondale marino di San Borondón, isola mitica dell’arcipelago delle Canarie che i due registi spagnoli eleggono a oggetto di studio del loro cortometraggio. Le riprese acquatiche sono il frutto di un’accurata esplorazione dell’isola con pellicola, videocamera digitale e ROV (Remotely Operated Vehicle) alla mano. L’effetto è quello di un esperienza immersiva e atemporale paragonabile a quella che si sperimenta guardando per la prima volta la sequenza psichedelica di 2001: Odissea nello spazio, ma con la certezza documentaristica che tutto quello che si vede esiste realmente.
Lasciamo gli abissi marini e approdiamo nell’appartamento dell’artista Heinz Frank, come ci suggerisce il sottotitolo del cortometraggio Geweisen Sein Wird – Die Wohnung von Heinz Frank della regista austriaca Sasha Pirker. Il film è una stravagante esposizione delle stanze e delle opere dell’artista, un omaggio che passa attraverso il ricordo degli spazi da lui realizzati e abitati e mai per la sua persona, che non appare mai per l’intera durata del corto. Questo percorso visivo ricorda quello di una mostra d’arte contemporanea in cui si è accompagnati da una guida, che nel caso del corto è la figlia di Heinz Frank; forse è proprio la familiarità tra la nostra guida/narratrice e l’artista che permette di rendere la sua assenza meno drammatica e la nostra visita guidata più divertente.
E come concludere la terza giornata del Concorso se non con un coinvolgente viaggio nella movida delle discoteche e dei locali notturni. Nel suo Viva la notte Francesco Zanatta fa immergere lo spettatore in un flusso di immagini di danze scatenate e masse informi per documentare e in un certo senso costruire una rappresentazione grafica della realtà notturna. Le immagini sono il frutto di una ricerca molto precisa: Zanatta infatti prende il proprio materiale soprattutto da YouTube e seleziona video di bassa qualità per lavorare sulla scomposizione dell’immagine e quindi del movimento. C’è chi in sala pensa subito al futurismo e alle opere di Umberto Boccioni ed effettivamente l’associazione è inevitabile. I corpi infatti, così sfocati e mossi, sembrano molti di più e perdono i loro contorni come nella celebre opera dell’artista Forme uniche della continuità nello spazio. Sembra proprio che Zanatta voglia avvicinarsi il più possibile all’esperienza vera e propria che si fa in una discoteca, trasmettendo allo spettatore tutta la confusione e lo spaesamento che hanno a che fare con lo sguardo, e nonostante il cortometraggio non rimanga più di tanto impresso ci riesce pienamente.