Parte la cinquantaseiesima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, in una veste e un periodo inusuali per il festival, spostato a fine agosto invece del consueto giugno, con un programma ridimensionato ma non di certo povero di contenuti. A causa dello slittamento, l’organizzazione ha dovuto fronteggiare dei cambi di location per i tradizionali incontri con gli autori, quest’anno per gran parte virtuali. La nuova sede è il cinema Astra, non più il Centro arti visive Pescheria, un ritorno in sala, come ha sottolineato il direttore Pedro Armocida, che assume una valenza particolare in un periodo in cui molte sale faticano a riaprire.
Così come la pandemia non ha fermato il Pesaro Film Festival, non ha fermato neanche Gabriele Di Munzio, uno dei tre autori virtualmente presenti all’incontro tenutosi oggi, 25 agosto. Il regista di Smarginature (liberaci dal male) ha infatti spiegato come il lockdown abbia modificato in corso d’opera la produzione del suo film. Ambientato a Napoli, Smarginature si ritrova a mettere in scena il contrasto. Il più evidente è quello tra una Napoli rumorosa, viva e una svuotatasi a causa della quarantena, la quale ha costretto Di Munzio a proseguire il lavoro con Claudia, che nel film narra la propria storia, al telefono. Una soluzione che ha modificato il modo di narrare di Claudia, a causa di una presenza fisica venuta a mancare, vitale tanto per il cinema quanto per il lavoro di Di Munzio, avendo a che fare con studenti e migranti a Marsiglia.
Figlio di grandi complicazioni è stato anche O que não se vê, film di Paulo Abreu, quasi interamente ricavato dal girato del location scouting di un altro progetto, bruscamente interrotto a causa della morte di un amico del regista, nonché produttore del film. Tornare e lavorare su quel materiale lo ha reso da subito per Abreu un film estremamente personale, ma al tempo stesso lo caratterizza come film “nascosto”, particolarità evidenziata dallo stesso titolo (“Ciò che non si vede”), il quale è dovuto anche ad una riflessione scaturita e ripresa per caso sulle potenzialità del fuoricampo. A causa della peculiarità del film si è riflettuto, grazie alle domande, su quanto Abreu abbia ribaltato una concezione comune, quella che vede il film in fase di post-produzione, ricavando invece il proprio da materiale normalmente relegato alla pre-produzione.
Nello stesso modo in cui il caso ha avuto un ruolo centrale in questi due lavori, anche nel film di Eléonore Weber è così. Il n’y aura plus de nuit nasce da un lavoro sulle guerre in Medio Oriente che ha messo in contatto la regista con il mondo dei dispositivi di registrazione militari. Il centro della sua opera è infatti il punto di vista e la pulsione scopica dei soldati, ma ciò che ha suggestionato particolarmente la regista è stata la scoperta di una tecnologia atta all’elaborazione delle immagini notturne affinché esse diventino visibili. Una sorta di “effetto giorno” che, nelle immagini test trovate da Weber online, nasconde un piacere estetico nel filmare.
A chiudere l’incontro è la presentazione, e conseguente proiezione, del secondo episodio del progetto Romarcord sulla ricezione popolare romana di Sergio Leone, coordinato da Andrea Minuz, Felice V. Bagnato, Francesca Cantore e Damiano Garofalo. L’episodio è stato realizzato da Raffaele Grasso, Valentino Pirola e Valentina Savi, con la collaborazione di Gianmaria Cataldo, Macha Martini, Emanuele Paglialonga e Luca Saponaro. Un momento reso possibile dall’attenzione che il Festival ha nei confronti degli studenti, sia ospitandoli con i loro lavori che accogliendoli in giuria.
a cura di Luca Di Giulio e Lavinia Flavi