Si è appena conclusa la cinquantaseiesima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, che ha visto trionfare A Metamorfose dos Pássaros (La metamorfosi degli uccelli) della regista portoghese Catarina Vasconcelos (trailer). La giuria che ha assegnato il premio “Lino Micciché” quest’anno era composta dal direttore della fotografia Renato Berta, dall’attore e regista Vinicio Marchioni e dall’animatore e regista Virgilio Villoresi. Doveva essere presente anche l’attrice e cantante tedesca Ingrid Caven, costretta a dare defezione all’ultimo, causa emergenza sanitaria. La motivazione dietro l’assegnazione del premio: “Questa giuria ha deciso di premiare l’autenticità con cui l’autrice ha raccontato la famiglia trattando le inquadrature come quadri in movimento. Grazie all’efficacia narrativa e alla cura estetica, il film accompagna lo spettatore in un viaggio visivo poetico ed emozionante”.
Il film è risultato essere il migliore anche per la Giuria degli Studenti, fortemente voluta anche quest’anno, stante le difficoltà, composta da venti ragazzi provenienti da varie accademie ed università italiane. Il premio gli è stato assegnato con la seguente motivazione: “Per aver saputo cristallizzare memorie familiari e storia di un Paese in un affresco poetico ricco di spunti pittorici e letterari. Per l’uso originale del quadro cinematografico, frutto di uno sguardo lirico e potente capace di evocare emozioni, sensazioni e immaginari eterogenei”.
A Metamorfose dos Pássaros è un viaggio nella memoria di una famiglia portoghese. Henrique è un ufficiale di marina. Sposa giovanissimo Beatriz e passa lunghissimi periodi in mare, lasciando che sia lei a prendersi cura della famiglia. Jacinto è il loro primogenito e padre della regista. Rimane orfano quando Beatriz muore improvvisamente. Anche Catarina rimane orfana di madre a diciassette anni. Ne nasce uno scambio tra padre e figlia, i due narratori principali del film (vi è una pluralità di voci narranti), che intrecciano i ricordi sulla loro storia familiare e l’assenza delle rispettive madri. Sullo sfondo, la Storia di un paese che deve fare i conti con la dittatura di Salazar ed il suo passato coloniale.
Sin da subito lo sguardo dell’autrice tradisce una formazione molto più pittorica che cinematografica (si diploma all’accademia di Belle Arti a Lisbona e studia alla Royal College of Art di Londra). Il film si apre con lo sguardo del nonno in una casa di riposo, intento a ricordare il suo passato con Beatriz. Si passa poi ad una sequenza dove accanto ad un basso rilievo di due occhi di metallo, viene appeso un quadro che raffigura la nonna, a letto, con uno dei suoi sei bimbi. Bastano queste due brevi sequenze a farci intuire il manifesto poetico con cui la regista intenderà portare avanti l’estetica dell’opera: una riflessione lirica ed esistenziale, in cui le parole si accompagnano a delle immagine fisse o in movimento, in un formato cinematografico, il cui aspect ratio di 1,33 porta avanti la narrazione come se stessimo assistendo ad un succedersi di quadri in esposizione, o forse anche allo sfogliare di un album fotografico, dove le istantanee, a volte reali, a volte puramente immaginate, scorrono sullo schermo senza che vi sia, necessariamente, una contiguità semantica con la voce fuori campo.
A Metamorfose dos Pássaros è un racconto di simulacri, di fantasmi, di genitori e di figli in una progressione di ricordi che, come degli specchi, riflettono la vita. Jacinto bambino seppellirà un passerotto morto assieme a suo fratello, in quel momento indelebile nella memoria quando, per la prima volta, ci si confronta con la morte. Una speculazione in cui la natura assume una funzione cardine per la regista: in essa fa rivivere i propri morti e da essa trae la forza per evocarli. Mentre Catarina racconta, in voce fuori campo, di aver ricevuto in sogno la visita della madre defunta, le immagini ci mostrano la sua mano attaccare foglie, muschi e pezzi di corteccia agli alberi di un bosco. L’illusione creata dalla semplice tecnica di una riproduzione in reverse, sublima superlativamente uno dei momenti più toccanti ed intensi di tutto quanto il film.
La Vasconcelos sembra suggerirci che solo la potenza creatrice di un artista sia capace di far rivivere i fantasmi della proprio passato, ricucendolo o letteralmente creandolo come fa con gli alberi. Se è cosciente che la madre del sogno non è reale, allo stesso tempo sa di poterla rendere vera, filtrando e risintetizzando il ricordo attraverso il suo cinema. Ma se la memoria non può, per sua natura, ottenere una verità testamentaria, l’autrice ritrova una sua compiutezza grazie alla poesia, che in questo film si manifesta attraverso una commistione consapevole e sapiente di pittura, letteratura e musica. Non manca, inoltre, un’intelligente riflessione sulla funzione ontologica del dispositivo: usa, infatti, il sedici millimetri per raccontare il tempo in cui la madre è ancora viva, rimarcando la fisicità della sua impressione nella pellicola. Si affida alla tecnologia in alta definizione del digitale, per raccontare i momenti in cui è defunta, proprio a sottolineare la perdita di questa materialità. Il passato è, così, più tangibile del presente.
Il cerchio si chiude quando ci mostra il blocco di lettere bruciate dei suoi nonni materni. La verità fattuale è perduta. Ora solo l’artista può far rivivere il proprio passato, renderlo più vero delle lettere, al fine – anche – di riscoprire la propria identità. Un’identità che non può non fare i conti con la storia del proprio paese. Così, se la morte di Salazar, mostrata attraverso la prima pagina di un giornale, sancisce la fine di un’epoca, una rassegna in sequenza di francobolli antichi racconta (e ricorda) il passato coloniale del Portogallo, in cui le immagini delle colonie si sostituiscono a quelle dei paesi ridivenuti indipendenti.
L’essenza del film la ritroviamo proprio in questa sua duplicità. Se da una parte abbiamo il racconto intimo di una memoria familiare, le cui tensioni umane riescono a parlarci in modo universale, dall’altro abbiamo un’opera che si immerge profondamente nello specifico di una coscienza portoghese. Non solo il passato storico, quindi, ma suggestioni visive e stilistiche che richiamano alla tradizioni del Paese: a partire dalle nature morte, che nella composizione con i pesci ritrovano un’iconografia tipicamente lusitana, sino ad arrivare alle influenze pittoriche di Antonio Carvalho da Silva Porto; dai dichiarati rimandi al cinema di de Oliveira, Reis e Gomes, alla ripresa letteraria di un lirismo tormentato di de Sá-Carneiro ed Espanca (senza dover necessariamente scomodare Pessoa).
Se il Kyrie della Petite Messe Solennelle di Rossini rimarca le radici cattoliche del Portogallo, non mancano i legami con le grandi opere del canone occidentale, come il Moby Dick di Melville, la cui lettura risulta quasi una citazione ineluttabile in un film il cui paesaggio marino assume una duplice valenza, negativa – l’assenza del nonno marinaio costretto ad andare per mare – e salvifica, come vedremo in una delle sequenze finali, in cui un alberello viene trasportato in acqua su di una barchetta a remi. Ed è proprio dall’ambiente marino che la Vasconcelos attinge la sua metafora definitiva: un cavalluccio, il cui nome scientifico di “Hippocampus” richiama il centro cerebrale dove si formano i nostri ricordi, diventa il correlativo oggettivo della memoria.
Dall’atto del ricordo e da un confronto con il tempo perduto scaturisce una forte nostalgia nell’autrice. La reiterazione di un finale illusorio, che non sembra mai voler spegnere definitivamente il film, è la prova di quanto essa sia attaccata al proprio passato, alla memoria della sua famiglia, al ricordo di sua madre. Un dimostrazione di grande dolcezza che permea tutta quanta l’opera ed arriva al cuore dello spettatore con una forza tale che è impossibile non emozionarsi.
Catarina Vasconcelos nasce a Lisbona nel 1986. Dopo essersi diplomata all’Academia di Belas-Artes nella capitale portoghese, si trasferisce a Londra dove studia alla Royal College of Art. Qui si diploma con il suo corto di esordio Metáfora ou a Tristeza Virada do Avess, vincitore del premio per il Miglior cortometraggio internazionale al Cinéma du Réel, nel 2014. Realizza nell’arco di sei anni A Metamorfose dos Pássaros, il suo primo lungometraggio, presentato nella sezione Encounters della settantesima Berlinale, dove si è aggiudicato il premio Fipresci.