Svegliatevi, è arrivata una rivelazione! Il nuovo film di Giuseppe Petitto è una perla rara su un banchetto di bigiotteria. Un dramma psicologico e familiare che sembra talvolta affacciarsi all’horror, senza mai giungerci realmente. L’estetica e la tecnica documentaristica del regista forniscono allo spettatore qualcosa di nuovo, di diverso. Un altro modo di vedere le cose. Un’alternativa a quelle strutture sempre più utilizzate, e dunque sempre più banali, del nostro cinema, sia in termini di narrazione che di tecnica.
Nicole (Antonia Liskova, con un’ottima performance recitativa), Roman (Michael Neuenschwander) e Lucy (Linda Mastrocola), rispettivamente madre, padre e figlia, si trovano ad affrontare una serie di ambigui e inquietanti eventi che avvengono nella loro villa in montagna. Nicole vuole a tutti i costi aiutare sua figlia Lucy, bambina solitaria e problematica, salvandola dai pericoli che oscure presenze sembrano poterle causare. Più Roman appare allontanarsi dal nucleo familiare (essendo colpevole di un tradimento in passato), più Nicole crede di avvicinarsi alla soluzione dell’incubo. E più sembra breve la distanza, più il pericolo diventa incombente.
Parlami di Lucy è la risposta a tutti quegli spettatori che con disprezzo affermano, senza effettivamente darne spiegazione: “Il cinema italiano non mi piace, guardo solo quello straniero”. Una frase sempre più comune, che sentiamo dire dai non addetti ai lavori tanto quanto dai professionisti, da coloro che il cinema lo fanno. Il perché, però, nessuno lo fa emergere. Le domande che dovremmo porci sono dunque le seguenti: è giusto o sbagliato giudicare la cultura cinematografica italiana a prescindere, magari per qualche “gruppetto” di film che effettivamente abbassano la media qualitativa? I “colpevoli” di questo distaccamento spettatoriale, di un abbandonato patriottismo artistico, sono i fruitori o gli esercenti?
In un’epoca di facile accesso a migliaia di titoli provenienti da tutto il mondo, bisogna aspettarsi che il pubblico si muova, per tendenza anche, verso le novità. Lo spettatore medio (sempre più colto a riguardo) inizia a mutare il suo sguardo. Vede qualcosa di diverso e lo riconosce come migliore, più efficace. Forse per le difficoltà produttive italiane, strettamente collegate all’economia, il pubblico etichetta il cinema del nostro Bel Paese come qualcosa di secondo, se non addirittura terzo, livello. Alcuni lo fanno per ignoranza, escludendo per non-conoscenza una grande tradizione tutta italiana della settima arte. Un filone di registi che da Fellini a Sorrentino (e ancor prima del riminese) hanno insegnato un nuovo modo di pensare i film all’estero. Ma è anche vero che non ci si può fossilizzare su alcune eccellenze per ricordarci che il cinema lo sappiamo fare anche noi.
Non so se a questo abbia pensato Petitto girando questo film, prima di lasciarci. Non lo sapremo mai. Resta il fatto che col suo Parlami di Lucy ci ha fornito uno spunto da cui partire per trovare le risposte. Ci ha detto, attraverso la mdp, che è possibile fare un film low-budget e allo stesso tempo strepitoso, emotivamente coinvolgente ed artisticamente superiore a una buona parte della produzione attuale. Ha mostrato che è possibile pensare a inquadrature diverse e che è dunque possibile uscire dai soliti campi-controcampi e campi lunghi, sperimentando e ricercando qualcosa di alternativo. Dovremmo iniziare a capire, guardando questo film, degno di essere accostato al Tornatore de “La Sconosciuta”, che non deve essere vista come una questione nazionale l’impossibilità della ricerca qualitativa, ma che anzi dobbiamo relegarla sempre più ai margini. Dovremmo capovolgere le premesse e tornare a pensare che possiamo anche noi realizzare grandi opere cinematografiche, con o senza ingenti finanziamenti, ma solo con la pazienza di costruire passo passo qualcosa di nuovo, o quanto meno interessante. Petitto lo ha fatto. Ha lavorato con i suoi attori cercando un’interpretazione forte e vera, sentita. Ha fatto emergere il suo carattere documentarista, con attenzione ai dettagli e alla crudeltà della vita quotidiana, alla indecifrabilità psicologica di alcune figure. Ha realizzato un’opera internazionale in tutti i sensi, passando dalla fotografia di Davide Manca (già conosciuto in Piuma, Il contagio ecc..) alle musiche originali di Teho Teardo, che incorniciano sapientemente il film. Tutto funziona come dovrebbe.
La vera chiave è dunque nei sogni. In quelli di Nicole, dove l’oblio della mente regna sulla verità. Nel sogno di realizzare film come Parlami di Lucy, nei sogni di vedere un nuovo modo di fare cinema, anche da noi. Nel sogno di Petitto e dei suoi produttori nel riuscire in qualcosa di diverso, di grande.
Di Pietro Bonaccio