Paris, Texas: un viaggio tra Wim Wenders e Sam Shepard

È il 1984 e gli Stati Uniti d’America, da Karate Kid a Ghostbusters, da Terminator a Footlose, vivono gli anni delle avventure cinematografiche. Tutto è spensierato, tutto è semplice. Un gioco fantastico in cui perdersi. Obiettivo: tornare bambini. Contemporaneamente,però, dall’altra parte dell’oceano, registi europei raccontavano la stessa America in maniera profondamente diversa. Cresciuti con Shadows (1959) e Fronte del porto (1954), autori come Antonioni o Godard esprimevano la loro personalissima visione dell’America, meno patinata ed esuberante. Tra questi, su tutti, un giovane tedesco di nome Wim Wenders, tirato su a pane e film western, esattamente 40 anni fa sbancava a Cannes con il suo film più americano: Paris, Texas (trailer). Oggi, il 23 agosto, la pellicola faceva il suo esordio nei cinema di tutto il Regno Unito.

ORIGINI E INFLUENZE: LA NASCITA DI UNA IDEA

Definito dallo stesso Wenders come un film western, Paris, Texas fu la summa della poetica del regista e di tutte le sue influenze. Ciò che fino ad allora aveva trattato in Alice nella città (1974) o Falso movimento (1975), trovava ancora più spazio nel suo nuovo film: la ricerca di identità. Riscoprire se stessi ancora una volta tramite il topos del viaggio, quello caro non solo a John Ford e al western ma a tutti i road movie. Allora non solo Ford tra le influenze ma anche Easy Rider (1966) o Gioventù Bruciata (1955) ed oltre, o meglio soprattutto, un uomo e un artista senza il quale il film non sarebbe potuto crescere: Sam Shepard.  

Noto soprattutto per i suoi ruoli da attore, non tutti sanno che la carriera di Shepard spaziò nella letteratura. Attore, scrittore e novello sceneggiatore, Shepard fu essenziale per la stesura del film, non solo per la prima metà su cui lavorò direttamente (successivamente dovette lasciare il progetto per conflitti di lavorazione) ma per l’intera poetica dell’opera.  Wenders e Shepard non ebbero mai un’idea precisa su cosa sarebbe stato il film: arrivati negli USA con metà sceneggiatura, la troupe tedesca lavorava sulle indicazioni che i due autori fornivano giorno per giorno. L’idea era quella di girare i fatti in ordine cronologico (così come il regista aveva già fatto in Alice nella città) in modo tale che fosse il racconto stesso ed il suo evolversi a guidarli su come proseguire.

Tuttavia il film aveva un unico chiaro obbiettivo: il desiderio di raccontare l’America, quella autentica della periferia, quella che lo scrittore conosceva così bene. Un’ America che, con Shepard, prendeva forma dai suoi testi romanzati, da uno in particolare. Il romanzo che potremmo definire il primo vero script del film di Wenders: Motel Chronicles.

MOTEL CHRONICLES: QUELLA SOMIGLIANZA TRA SHEPARD E WENDERS 

Publicato nel 1982, Motel Chronicles fu una raccolta di momenti autobiografici, poesie e fotografie che Shepard visse nello stesso Texas in cui è ambientato il film. Cosi intimo e vicino a ciò che il cinema significava per Wenders che da subito le idee furono chiare: il film avrebbe preso proprio il nome dal romanzo da cui traeva così tanta ispirazione. Il titolo Paris, Texas arrivò solamente dopo.

AMBIENTAZIONI

«Sorpassammo rosse cartucce da fucile sbiadite dal sole, opossum morti, lattine di birra. Gusci di noce, bucce di Carrube, un procione lavatore con due piccoli, pagine strappate da riviste porno, grossi pezzi di corda, camere d’aria, mozzi di ruota, tappi di bottiglia, piante di salvia essiccata, assi coi chiodi, mozziconi di sigarette, radici, pezzi di vetro, palline da golf gialle a strisce rosse, una chiave inglese, biancheria femminile, scarpe da tennis, calze stecchite, un cane morto, topi, libellule che battevano l’elica a mezz’aria, rane accartocciate con gli occhi di fuori. Fermammo le nostre biciclette e guardammo attraverso la bocca del tunnel e io mi accorsi che anche loro avevano paura come me nonostante fossero più grandi.»

Motel Chronicles.

Paris, Texas fin dalla prima inquadratura sarebbe dovuto essere chiaro: lo sfondo prima di tutto. Non è un caso infatti se il film si apre sulla maestosa Monument Valley, quella che John Ford aveva reso suo personaggio imprescindibile. Al pari di un attore infatti, nei vecchi western ciò che circondava il cowboy era elemento chiave di comprensione del testo, era estensione dell’Io. In Paris, Texas  l’ambientazione sarebbe dovuta essere allo stesso modo anima esplicativa della narrazione. Motel Chronicles, anello di congiunzione tra Wenders e il western, faceva la stessa cosa: raccontava l’ambiente in maniera così minuziosa da descrivere tramite gli argini della strada i sentimenti dei personaggi.

Travis Handerson (Harry Dean Stanton), il protagonista di Paris, Texas osserva e tramite i suoi occhi ci mostra da fuori ciò che c’è dentro. Non servono parole. Nei primi 30 minuti del film il protagonista non apre bocca, anzi quasi scompare nei lunghi sfondi americani. Obiettivo di Wenders e di Shepard era quello di immortalare un momento, fissare uno scorcio che fosse esegetico di un sentimento, ancor più dei volti dei protagonisti. Immagine descritta in maniera così analitica da diventare documentaristica. Il Texas allora, perlustrato in lungo e in largo dai personaggi dei due autori diventava, come nei western, madre e nemico, casa e selva in cui perdersi e scoprirsi.

«Il mio cinema fin dall’inizio ha avuto un enorme aspetto documentaristico. Guardando indietro ora, penso di aver fatto la maggior parte dei miei film di finzione come se fossero stati documentari, e poi ho fatto i miei documentari come fossero stati film di finzione»

Wim Wenders.

IDENTITÀ

«Cambiava l’acqua ai canarini, dava da mangiare al mulo, restava lì impalato per mezz’ora . Tutte le mattine, cambiava l’acqua ai canarini, dava da mangiare al mulo e restava lì impalato per mezz’ora. Non è che progettasse di rimanere lì impalato per mezz’ora. Solo che succedeva, tutte le mattine. Forse era la pausa nel finire di dar da mangiare al mulo che esauriva lo slancio. Sembrava ci fosse uno slancio naturale tra il cambiare l’acqua ai canarini e il dar da mangiare al mulo. Non c’era mai nessun problema a passare dai canarini al mulo. Solo che succedeva. Tutte le mattine. Era la pausa dopo aver dato da mangiare al mulo che lo rintronava. Una pausa gigantesca. Sapeva persino qual era la cosa seguente. Lo sapeva con molta chiarezza. Sapeva che la cosa seguente era dar da mangiare a se stesso. Dopo aver dato da mangiare al mulo. Ma non riusciva a muoversi. Restava lì impalato per mezz’ora, a fissare il deserto. Talvolta a fissare la sua bottiglieria. Talvolta a fissare la pompa del pozzo. Dipendeva da quale direzione gli capitava di fronteggiare quando lo colpiva la paralisi. Arrivò al punto di aspettare con ansia di restare lì impalato per mezz’ora. Era il momento culminante della sua mattinata. Cambiare l’acqua ai canarini, dar da mangiare al mulo, restare lì impalato per mezz’ora»

Motel Chronicles.

Quella appena citata è tra le poesie di Motel Chronicles la più esplicativa del tema corporale del film: l’identità. In Paris, Texas, Travis ci viene presentato come un uomo solo, perso nel deserto, con uno scopo sconosciuto allo spettatore per la maggior parte della narrazione: sta fuggendo dal suo passato. L’uomo ha una moglie ed un figlio, sa di dover tornare da loro, eppure proprio per questo è incapace di adempiere al suo dovere. Completamente succube degli errori commessi in passato, l’uomo fugge nel deserto verso una meta priva di valore. È paralizzato, come il protagonista dell’opera di Shepard, ogni qual volta i suoi doveri gli tornano alla mente. È così che le opere dei due artisti iniziano a interrogarsi su cosa faccia di un uomo un padre o un marito. Cosa distingua l’immagine idilliaca da quella reale. Paris, Texas, come l’intera vita ed opera di Shepard, si sviluppa intorno tema. Forse la risposta è accettare il ruolo che si ricopre, compito che Travis è chiamato a svolgere, così come lo era il padre di Shepard.

Come raccontato da lui stesso, il padre fu un violento alcolista fino alla morte. Un uomo che scompariva per giorni, a volte settimane, per poi tornare come se non fosse accaduto nulla. Egli fu una figura da cui Shepard scappò per tutta la vita, fuga che forse, tramite il cinema di Wenders, trovò la sua conclusione. Al contrario, nel film il protagonista pone fine al suo pellegrinaggio mentre è preda di una sorta di epifania: in quel momento diventa consapevole del suo ruolo genitoriale davanti al figlio ritrovato. Tuttavia i tentativi di riconciliazione proprio con quella vita passata, cessano con una presa di coscienza: tutto è svanito, non c’è rimedio.

Accettare la propria identità per Travis è come per Shepard realizzare le mancanze della sua infanzia e fare pace con la figura paterna, tanto sofferta. Ed è così che Wenders, sul finale, rende cinema il processo psicologico iniziato da Shepard, mostrandoci un uomo che si riscopre come mai avrebbe voluto, davanti ad una donna succube della sua decisione, tanto da non poter far altro che osservarlo nel riflesso di un vetro.


BIBLIOGRAFIA

  • Sam Shepard, Motel Chronicles, Il Saggiatore, 2016

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