Parasite (qui la recensione da Cannes) è un ibrido di generi, un eccentrico thriller tragicomico a carattere sociale. Padre, madre, figlio, figlia; una famiglia povera vive di lavoretti malpagati in uno squallido seminterrato, finché un giorno la fortuna sembra abbracciare uno di loro. Non accontentandosi, i quattro escogiteranno un piano imprevedibile e apparentemente risolutivo per la propria sorte, ma non tutto andrà come previsto e le conseguenze delle proprie menzogne rischieranno di farli precipitare in un caos letale.
Palma d’Oro all’ultima edizione del Festival di Cannes, Parasite è diretto dal noto regista sudcoreano Bong Joon Ho (The Host, Memories of Murder, Madre). Come era già evidente nella poetica di Okja e Snowpiercer, l’attenzione di questo autore è attualmente focalizzata sulle problematiche sociali che derivano dalla malattia del sistema capitalista. Questo suo ultimo film ritrae con una vitale e violenta ironia l’incapacità di due classi di convivere armonicamente e lo sviluppo di una tensione che lacererà ogni equilibrio in un’esplosione indesiderata.
Il titolo del film è umoristico ma anche esplicativo della condizione di vita dei personaggi principali. Parassita: un’esistenza di squallore in cui affidarsi completamente al potere della furbizia e sacrificare la propria dignità. L’ossessione per il proprio tornaconto personale e la ricerca sfrenata di stabilità sono irritanti e alle volte distaccano emotivamente da quei personaggi che razionalmente sappiamo essere da sempre le vere vittime, portandoci a empatizzare con i ricchi, effettivamente a loro modo innocenti e avvolti in una bolla di ingenuità. Con il loro operato i truffatori rispecchiano la mentalità capitalista del profitto; sono i figli di un sistema malato che li ha consumati e contaminati con il desiderio spasmodico di un’autorealizzazione da perseguire ad ogni costo.
La macchina da presa si aggira fluidamente negli interni di una dimora lussuosa, esplorandola con l’incedere e la gravità di un’intrusa, mettendo in risalto l’ampiezza delle stanze, la lunghezza dei corridoi e le geometrie visive. Uno sguardo voyeuristico che riflette lo stordimento e lo stupore di chi tanta grandezza non l’ha mai vista, ma che comunica anche un presentimento di imminente catastrofe. Nella regia di Bong le forme visive si fanno sottilmente strumento per la creazione della suspense e il dramma interiore di un’intera fascia sociale è espresso attraverso l’uso di metafore visive di alto impatto che si insinuano realisticamente nell’azione. È il caso di una delle sequenze più belle del film, il diluvio che allaga e distrugge violentemente il mondo fragile in cui come topi di fogna vivono segretamente i reietti della società. Incisiva l’inquadratura di una zattera improvvisata a tale in un mare urbano di detriti e devastazione, immagine tragica che evoca “La zattera della Medusa” di Géricault.
Un dramma satirico che spiazza e genera emozioni contrastanti, rendendo complesso il processo di identificazione e sovvertendo ogni volta le aspettative, anche grazie all’alternanza tra generi cinematografici diversi. Un’irriverenza dark che cavalca in parte il successo di cineasti come Lanthimos, Haneke e Peele, tuttavia più capaci di creare profili psicologici interessanti. Un difetto di Parasite è infatti la freddezza emotiva che deriva da una caratterizzazione approssimativa dei personaggi, che stride con quei momenti di enfasi nei quali quasi si pretende compassione e commozione da parte dello spettatore.
Concludiamo con le parole di Bong che descrivono efficacemente il suo film: “Il ritratto di persone comuni che precipitano in un inevitabile tumulto, questo film è: una commedia senza clown, una tragedia senza cattivi, che ci conduce ad un intreccio violento, ad un tuffo a capofitto giù dalle scale. Siete tutti invitati in questa tragicommedia inarrestabilmente feroce”.