Lontano dallo stile di molti suoi film più famosi, ma al contempo vicina ad essa per tematiche e trattazione, Paper Moon (1973, trailer) di Peter Bogdanovich è una New Hollywood che si diverte a riscrivere la régle du jeu del Cinema classico americano. La trama è semplice. Al funerale della madre della piccola Addie (Tatum O’Neal) in Kansas, il signor Moses (Ryan O’Neal) si convince a scortare la bambina dai suoi zii nel Missouri. Lei è sua figlia, ma Moses lotta contro se stesso per non ammetterlo fino in fondo. Comincia così un viaggio on the road di avvicinamento reciproco ed incontri casuali che mette in luce tanto i deserti interiori della figura paterna, quanto i vuoti scenari dell’America anni trenta. Con Paper Moon siamo pertanto distanti anni luce dall’idilliaca american way of life messa in scena, ad esempio, da Frank Capra nei suoi film.
Molte opere del Maestro italoamericano sono infatti, tra le altre cose, anche rappresentazioni del maschio mitico statunitense e del suo arco di trasformazione in un ideal-tipo tradizionalmente accettato. Non è dunque un caso che i protagonisti interpretati da James Stewart in due capolavori di Capra, Mr. Smith va a Washington (1939) e La vita è meravigliosa (1946), raggiungano la loro massima definizione soltanto quando abbracciano i valori di società e famiglia. Nel primo film, il capo non è uomo se non sa dar voce all’onestà e ai diritti dell’individuo; nel secondo, il padre non è uomo se non sacrifica la sua vita per il benestare delle pecorelle o figli.
In contrasto a tale ottica, Paper Moon gioca proprio con la caduta di questo sistema di valori statunitense tanto ricercato da Capra nelle sue opere.
Moses Pray è un truffatore venditore di Bibbie e le sue vittime preferite sono le vedove di qualsivoglia classe sociale. È un poco di buono che abbindola il prossimo e che vorrebbe oltretutto rubare anche alla figlia. Si reca al funerale della madre di Addie, morta accidentalmente in un incidente d’auto, e un gesto semplice ci dà l’idea dell’uomo che è: Moses non ha portato i fiori per salutare la defunta e, così, ne “prende in prestito” alcuni da una lapide vicina. L’uomo è veramente alla veglia funebre per salutare la donna un tempo amata? Il mistero si risolve quando, dopo aver accettato di accompagnare la figlia in Missouri, si reca dal fratello benzinaio dell’omicida della madre; Moses chiede che alla povera orfanella siano versati duecento dollari di contributi… Inutile dire che se li intascherà, si farà riparare la macchina e comprerà un biglietto del treno per scrollarsi di dosso la magagna della mocciosa.
A sorpresa, Addie dimostra che è sangue del suo sangue! È una piccola vipera che ha capito la farsa di Moses ai danni del benzinaio e che ora vuole i duecento dollari suoi di diritto. A seguire, la prima scena di conflitto padre-figlia presso un ristorante è un capolavoro di scrittura. È uno stravagante momento in grado di rovesciare nell’assurdo i ruoli di innaffiatore e innaffiato: la bambina minaccia l’adulto di denunciarlo alla polizia se non la porta con sé a vendere fumo per arrosto e se non le restituisce i famosi duecento dollari. Come evolverà il rapporto padre-figlia? È un rapporto stretto soltanto dalla morsa del denaro?
L’accattivante sceneggiatura di Alvin Sargent riscrive il paradigma dei padri americani in pieno stile New Hollywood. Se l’arco di trasformazione di George Bailey ne La vita è meravigliosa di Frank Capra implica la sua crescita sotto i profili interdipendenti di società e famiglia, il viaggio di Moses Pray in Paper Moon di Peter Bogdanovich rompe la relazione biunivoca tra queste due mitologie ed apre oltretutto a nuove chiavi di lettura con cui interpretare l’amore paterno. Ogni gesto del protagonista, anche il più bieco e meschino, va così a rileggersi sotto un punto di vista inatteso. Moses istruisce Addie sull’arte della truffa, la sfama, la rimprovera e sacrifica la sua incolumità (di padre e uomo) per proteggerla dai criminali. Questa di Moses si dimostra l’altra faccia dei padri americani, non più idealizzati come personalità portatrici di sani valori.
Il testo di Sargent si trasforma in una semina di indizi rivelatori dei conflitti che pesano sull’animo del protagonista. È di fatto un ritratto USA dalla poetica profondità di campo. Moses cammina sul trauma dell’abbandono e, sebbene molti dialoghi indirizzino lo spettatore verso una strada apparentemente certa, i volti di padre e figlia raccontano tutt’altro. Addie ad esempio rifiuta di truffare una vedova con sette figli, mandando così a monte la rapina del padre. In macchina, Moses rimprovera la figlia e minaccia di lasciarla alla stazione più vicina. Ma quella solitudine assordante si fa sentire! Finalmente ha ora la figlia vicina… «Tu hai fame? Io sto morendo. Fermiamoci a mangiare». Il cibo è un organo di sfogo nel film di Bogdanovich e il suo semplice richiamo da parte di Moses è sintomo del desiderio paterno di rimanere accanto alla figlia, nonostante i battibecchi che possono scaturire in famiglia.
Il rapporto tra Moses e Addie va rafforzandosi ulteriormente grazie ai diversi incontri casuali lungo il cammino. Avvertiamo l’amarissimo dolore di Furore (1940) di John Ford, quando avvistiamo una grande famiglia di contadini e il loro furgoncino sul ciglio della strada. Quest’ultima situazione ci mostra una bassa America che, nonostante le riforme rooseveltiane del New Deal, ancora sguazza nel fango economico della Grande Depressione (1929-1939). La tragedia del singolo diviene collettiva. Moses è uno di quei disperati che, dal punto di vista del vestiario e della parola, sembra essere scampato alla fame: in realtà egli è il ladro della sua stessa casa. Man mano che andiamo avanti nella storia, apprendiamo che il personaggio interpretato da Ryan O’Neal non vuole abbandonare e non abbandonerà la sua amoralità. Moses è, e rimane, un cieco truffatore… Il simbolo di quei padri che, pur non avendo un codice socialmente utile e accettato, desiderano sempre e comunque salvare le proprie figlie.
In tutto questo, Addie funziona come il catalizzatore che ci lascia detestare ed amare questo padre sgangherato e bugiardo. Moses inoltre desidera la compagnia (seppur sporadica e senza impegno) di una donna, ma ogni suo tentativo di approccio col sesso opposto è continuamente sabotato dalla bambina. È questo il caso della squattrinata Trixie Delight (Madeline Kahn), feticista senza arte né parte che ricorda vagamente Stella Dallas (Barbara Stanwyck) di Amore sublime (1937) di King Vidor. La sequenza dedicata al rapporto tra Moses e Trixie è grottesca e drammatica al contempo. Seppur caratterizzata da un’ironia di fondo, essa non fa altro che rimandare a quanto ormai non ci sia più alcun posto né per le madri né per la famiglia nel senso tradizionale. La vita meravigliosa secondo Paper Moon di Peter Bogdanovich non è tanto quella che ti impone una convenzione sociale, quanto quella che un uomo può costruirsi se non sacrifica tutta la sua vita per un egoismo… E, sotto questo aspetto, forse l’angelo del film di Frank Capra c’aveva visto giusto.