Bobby (Al Pacino) è uno spacciatore sito a Needle Park. Helen (Kitty Winn), invece, è una giovane studentessa d’arte appena trasferitasi a New York. I due si innamoreranno, scivolando in una «spirale di depravazione»[1] tra eroina e prostituzione.
Panico a Needle Park (The Panic in Needle Park), firmato Jerry Schatzberg, descrive l’orrore della tossicodipendenza negli anni del boom dell’eroina. Non è un film contro la droga ma il ritratto di una New York brulicante di vite spese tra la frenesia della ricerca di una dose e l’incertezza del domani. La tagline «God help Bobby and Helen. They’re in love in Needle Park» è il grido d’aiuto per tutti quei giovani che si trascinano da un letto all’altro in cambio di quei pochi soldi da schizzarsi nelle vene, il cui punto d’incontro per il loro junkie romance è il “parco” all’angolo tra Broadway e la 72esima Strada.
Nessuna differenza sostanziale dall’omonimo racconto di James Mills pubblicato nel 1965 su «Life». Per Roger Ebert, Needle Park funziona perché mescola l’intramontabile melodramma nella grande città con il documentarismo, traendone una tragedia che mira molto più in alto che a un brutale spettacolo di pratiche da tossicomani. Ma se per l’America il film fu un successo e ottenne il plauso del «New York Times», di «Variety» nonché la nomination di Schatzberg alla Palma d’oro – che due anni dopo vinse con Lo Spaventapasseri (Scarecrow, 1973) –, l’Inghilterra ne autorizzò l’uscita solo nel 1974, mentre in Italia venne vietato ai minori di 18 anni.
New York e il cinéma vérité
“Needle Park” altro non era che il soprannome di Sherman Square, Manhattan: niente più di una panchina rotta, diventata nel corso degli anni un luogo di ritrovo per gli eroinomani, dimenticati dal pacifismo altrettanto tossico e psichedelico dei coloratissimi anni Sessanta. Nella grigia New York del 1971, invece, si viveva un periodo di «carestia e panico»: ne era motivo una campagna elettorale, pretesto per nascondere sotto il tappeto il marciume della Grande Mela. Sulla critica sociale si poggia anche il personaggio di Hotch (Alan Vint), segugio dei narcotrafficanti, un’eccezione rispetto a chi «sta seduto il giorno a guardar passare i cattivi», in grado di comprendere la giungla che è il mondo dei tossicodipendenti.
In Needle Park, New York si racconta con un registro documentaristico privo di ipocrisie. Affinché la quotidianità della preparazione di una dose alla sua iniezione fosse tale, sul set era sempre presente un’infermiera che supervisionasse le scene di droga, mentre il truccatore Herman Buchman perfezionò il tutto grazie allo studio dei segni lasciati su pazienti e cadaveri. Secondo un curioso aneddoto, raccontato da Schatzberg, Keith Richards dei Rolling Stones non si capacitava di come il regista fosse in grado girare un film sull’eroina senza averne fatto uso.
Il cinéma vérité, per definizione, «si tratta di […] un cinema […] che superi l’opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, […] un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva».[2] In Needle Park la realtà nociva, mostrata senza remore, spezza il continuo tentativo di riprendere l’atmosfera più umana della storia tra i due eroinomani nata tra le strade trafficate di una New York corrosa. A sostegno della tetra cinematografia di Schatzberg, la colonna sonora del film si limita ai rumori caustici della città.
«Dei drogati una cosa tieni a mente: tradiscono sempre. Sempre.»
Bobby è un delinquente fin troppo intraprendente che paragona il suo passare di galera in galera all’aver «girato il mondo». Ce la mette tutta a non sembrare un tossicodipendente («Non sono agganciato, spizzico») tra gli eroinomani che, chiedendosi quale sia la miglior droga di tutte, rispondono «la morte»: Bobby vuole vivere ed è al di sopra del suo gruppo di amici già sotterrati dall’eroina. Helen, la sua controparte, estranea al suo mondo, ingenua ma forse un po’ cinica, è inizialmente in bilico tra le due forze contrarie dell’amore per l’altro e l’amore per se stessi, la cui commistione la spingerà nel baratro.
Il vero dramma del film è infatti racchiuso nel personaggio interpretato da Kitty Winn in uno dei suoi rarissimi ruoli cinematografici, per il quale vinse il premio per la migliore interpretazione femminile al 24° Festival di Cannes. Needle Park è raccontato tramite l’esperienza di Helen, e tantissimi sono momenti critici in cui il suo volto – ora sofferente, ora incuriosito, ora spaventato – narra passo dopo passo la degenerazione causata dalla tossicodipendenza. Il focus su Helen ci accompagna per le strade della Grande Mela, sia in qualità – ad esempio, nella primissima scena – di soggetto isolato nella folla del metro che di “terzo” durante una conversazione sulle migliori tecniche di furto tra Bobby e suo fratello Hank (Richard Bright), intervallato da primi piani della ragazza, timorosa e affascinata.
Come afferma Ebert, Needle Park è una triste storia d’amore: né Helen né Bobby muoiono, ma continuano a tradirsi per il solo bisogno di farsi di eroina, che in fondo è ciò che li lega. Il nucleo drammatico della vicenda è racchiuso nel momento in cui Bobby si accorge del grande, deleterio passo fatto da Helen per lui: il silenzio si chiude attorno all’abbraccio dei due, i rumori di scena si annullano, lasciando i due amanti soli come mai prima, né cinematograficamente, né umanamente.
Infine, non si può non ricordare che senza “Bobby” l’allora sconosciuto Al Pacino non sarebbe stato scritturato per l’iconico Michael Corleone ne Il Padrino (The Godfather, r. Francis Ford Coppola, 1972), sebbene, come già accennato, il mondo della musica e del cinema dialogassero molto in quegli anni e lo sceneggiatore John Gregory Dunne volesse, in un primo momento, coinvolgere Jim Morrison per il carismatico, “vitale” eroinomane. Ma il casting director Marion Dougherty, che spesso si recava nei piccoli teatri a New York per scovare nuovi talenti, assistette a una recita di The Indian Wants the Bronx al Cherry Lane Theater, con Al Pacino nel cast. In un primo momento ingaggiato per un ruolo da co-protagonista ne La gang che non sapeva sparare (The Gang That Couldn’t Shoot Straight, r. James Goldstone, 1971), Pacino dovette cedere la parte a Robert De Niro per un infortunio al ginocchio che non gli avrebbe permesso di andare in bicicletta sul set, ottenendo, finalmente, il ruolo ben più in vista in Needle Park.
[1] G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, III, Dalle “nouvelles vagues” ai nostri giorni, t. 1, Milano, 1988 p. 343.
[2] «Segnalazioni cinematografiche», LXXIV, 1973