La scorsa notte si è tenuta la cerimonia della novantaseiesima edizione degli Oscar, una delle occasioni più importanti in cui si ha modo di radunare tutte le maggiori maestranze del cinema, farle comunicare tra loro e riconoscere in vesti ufficiali i loro meriti. Gli Oscar rappresentano da sempre il luogo deputato per la messa in discussione di logiche e pratiche che ancorano il cinema ad ideali passati e dunque la rampa di lancio per un cinema attuale e più inclusivo. Spesso questo aspetto è stato esasperato dagli stessi organizzatori della premiazione- si pensi alle recenti norme che prevedono nuovi e più stringenti criteri per la candidatura dei film, tra cui la presenza di almeno una minoranza culturale – con il rischio di sfociare nell’estremizzazione del concetto di politically correct e vincolare eccessivamente e in modo distorto gli autori e le storie del cinema contemporaneo.
Tuttavia, la funzione più importante e forse mai esplicitamente riconosciuta degli Oscar è quella di vetrina: attori, registi, sceneggiatori, tecnici, costumisti hanno modo di farsi conoscere mostrandosi fisicamente e creare aspettative per eventuali progetti futuri. Così la cerimonia stessa diventa uno spettacolo in cui ognuno ha la propria parte e può guadagnarsi l’approvazione del pubblico in base a ciò che dirà e a come si mostrerà. In questo senso gli Oscar non sono nient’altro che l’ultimo ingranaggio di uno star system che vede nel conferimento simbolico della statuetta il culmine del suo processo. Potendo parlare di un vero e proprio spettacolo, abbiamo dunque la facoltà di giudicare gli Oscar come un qualsiasi prodotto audiovisivo e in più di approfondire le dinamiche visibili e non che attraversano la cerimonia.
Il presentatore della novantaseiesima edizione degli Oscar è per il secondo anno consecutivo il comico e conduttore televisivo Jimmy Kimmel, che nel suo discorso d’apertura mette subito le mani avanti e lancia la sua captatio benevolentiae a Greta Gerwig e Margot Robbie, due delle protagoniste del 2023 per misteriosi motivi escluse dalla candidatura a miglior regia e miglior attrice protagonista per Barbie. Il conduttore non si esime da battute e commenti licenziosi in pieno “stile Gervais”, come quelle rivolte all’attore Robert Downey Jr. e al suo trascorso da tossicodipendente, confermando la tendenza ormai più che consolidata da parte dei presentatori a provocare il riso del pubblico attraverso la messa a nudo dei punti deboli delle star (si pensi a tutte le battute sulla vita privata di Leonardo Di Caprio).
Non mancano tuttavia i rimandi alla situazione politica degli Stati Uniti, con le primarie repubblicane in corso e le presidenziali previste per novembre. Kimmel legge un commento scritto da Donald Trump su Truth (social network fondato dallo stesso Trump) in cui afferma che il presentatore è il peggiore mai visto nella storia degli Oscar, e risponde menzionando l’arresto di Trump. L’ex-presidente repubblicano non è però il solo elemento di attualità nel corso della cerimonia: si parla infatti dello sciopero di attori e sceneggiatori nell’estate dello scorso anno, invitando un folto gruppo di lavoratori dello spettacolo a salire sul palco del Dolby Theatre. Poco e niente invece sulla guerra, o meglio sulle guerre che stanno vessando l’Ucraina e la striscia di Gaza. Kimmel tace e a parlare sono i vincitori dei premi: Jonathan Glazer al ritiro del premio per Miglior film internazionale (La zona d’interesse) e Mstyslav Černov per Miglior documentario (20 days in Mariupol). Tutto rimane però cristallizzato, in vetrina come le star sul tappeto rosso, e le denunce di Glazer e Černov si dissolvono nell’aria di festa del Dolby Theatre seguite dalla colonna sonora scoppiettante di Barbie, a dimostrazione che sebbene la cerimonia dia spazio e voce a tutti coloro che vi partecipano la cornice rimane pur sempre quella dell’intrattenimento. Quest’ultimo però non raggiunge comunque un livello tale da tenere gli spettatori da casa (o in sala) incollati allo schermo.
L’impressione è che gli Oscar si siano ridotti ormai a una mera formalità e quasi a un contentino per gli artisti e i loro fan, continuando a nutrire lo star system che fa muovere l’ingombrante macchina hollywoodiana, ma lasciando a bocca asciutta chi cerca una forma ulteriore di intrattenimento: la cerimonia è sempre più breve e sbrigativa, gli stacchetti comici quasi inesistenti e le performances più rarefatte. Sembra che il cinema stesso ormai stia diventando una mera formalità, qualcosa da dover fare nel rispetto di mille categorie e criteri artistici, non più un’esigenza. Tuttavia, gli Oscar hanno fortunatamente ancora molto seguito e come già detto ci offrono un’occasione di studio e una panoramica sulle tendenze e gli indirizzi che prenderà il nostro cinema negli anni a venire.
I PREMI
Niente di nuovo sul fronte occidentale. Non è solo il titolo del Miglior Film Internazionale dello scorso anno, ma è la sensazione che si ha leggendo la lista dei film vincitori, in un’edizione piuttosto avara di clamorose sorprese o risultati divisivi. Se nel 2023 l’incetta di premi ottenuti da Everything Everywhere All at Once era stata abbastanza inaspettata anche per chi aveva pronosticato esiti favorevoli per il film, vedere ad oggi trionfare Oppenheimer e Povere creature! appare fin troppo prevedibile. Ma il rispetto delle previsioni iniziali non può essere un malus a prescindere (se non per il bene dello show), anzi.
Oppenheimer si porta a casa sette statuette su tredici candidature, tra cui: Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Attore Protagonista, Miglior Attore Non Protagonista, Miglior Montaggio, Miglior Fotografia e Miglior Colonna Sonora Originale. È la consacrazione definitiva di quello che si può ora con certezza definire come il film del 2023, che ottiene un sostanzioso riconoscimento artistico dopo i numeri da capogiro al botteghino. È il film che consegna l’agognata statuetta a uno dei registi-autori più popolari degli ultimi vent’anni, che mai era stato onorato dall’Academy. Stesso lieto fine anche per due attori molto amati nel panorama contemporaneo, Cillian Murphy e Robert Downey Jr., che, interpretando il “ruolo della vita”, riescono a separarsi dai personaggi a cui sono rimasti attaccati nell’immaginario comune (il Thomas Shelby del piccolo schermo e il Tony Stark dei cinecomics) dimostrando senza dubbio il loro peso specifico nella scena hollywoodiana.
Ma anche per quanto riguarda gli altri premi: tutto prevedibile, ma tutto giusto, inevitabile. Oppenheimer si è rivelato il film perfetto per gli Oscar. Una pellicola con un senso politico che tocca uno dei personaggi più importanti della storia recente americana per parlare anche di urgenti questioni attuali. Un biopic, genere che l’Academy ha sempre dimostrato di amare particolarmente, con un accattivante cast all star. Un impressionante fenomeno mediatico che ha generato introiti vitali per la ripresa economica delle sale nel periodo del Barbenheimer, ma anche un film che riesce a far emergere la marca autoriale del suo regista. Il suo en plein finale non era mai stato realmente messo in discussione, nonostante negli ultimi giorni La zona d’interesse facesse pensare a un clamoroso ribaltone nella categoria maggiore. Un membro anonimo della giuria, a proposito di questa partita finale tra i due film, aveva dichiarato a The Hollywood Reporter: «[Oppenheimer] è quel tipo di esperienza cinematografica per cui vivi se ami i film; mi rende triste sapere che un giorno dovrò morire, perché non potrò più vedere film così. Ma nessun film mi ha fatto sentire come La zona d’interesse».
Quest’ultimo, comunque, esce a testa molto alta dalla cerimonia: a fronte di cinque candidature, ottiene il – largamente pronosticato – Miglior Film Internazionale, battendo senza problemi la quota italiana di Io Capitano. Ma, soprattutto, ottiene il premio per il Miglior Sonoro, e questo non è scontato: stavolta, è lui a spuntarla su Oppenheimer, una delle poche sorprese di questa edizione. Entrambi i lavori fanno del comparto sonoro una componente essenziale, e sono entrambi decisamente di alto livello. Tendenzialmente, l’Academy conferisce il premio a film che usano il sonoro in modo molto appariscente, “chiassoso”, roboante, e Oppenheimer sembrava indiziato a coinvolgere di più i votanti. Stavolta, però, la scelta è ricaduta su un sound design più sofisticato e sottile, meno evidente; è il caso di dire che la campagna promozionale de La zona d’interesse, che aveva molto spinto su questo aspetto a partire da slogan, trailer e dichiarazioni, ha avuto il suo effetto desiderato.
Impossibile ignorare poi le vittorie di Povere creature!: quattro premi su undici candidature, di cui Miglior Trucco e Acconciatura, Miglior Scenografia, Migliori Costumi e Miglior Attrice Protagonista. L’estetica ingegnosa e quasi pittorica del film ha pienamente convinto la giuria, che l’ha preferito al rivale Barbie (che invece ottiene solo la Miglior Canzone per What Was I Made For?, di Billie Eilish e Finneas O’Connell). Ma soprattutto, la principale notizia della serata è la vittoria di Emma Stone come Miglior Attrice Protagonista, nel ruolo di un’energica e impetuosa Bella Baxter, che ha prevalso sulla favorita Lily Gladstone (la Mollie di Killers of the Flowers Moon). Per una giuria dell’Academy sempre più attenta e sensibile alle questioni etniche, premiare la prima nativa americana della storia degli Oscar sembrava un’occasione imperdibile da non farsi sfuggire, considerando anche la sorprendente interpretazione della Gladstone. A dispetto delle previsioni e di chi era già pronto a urlare allo scandalo del politicamente corretto, però, trionfa il messaggio emancipatorio e vitalistico di Povere creature! ed Emma Stone fa doppietta dopo l’Oscar per La La Land nel 2017. A proposito di questo confronto tra le due attrici, il critico statunitense David Rooney aveva affermato: «La sensibilità di Gladstone la renderebbe una vincitrice ampiamente meritevole […] Ma non c’è stata interpretazione più folgorante di quella della Stone, nei panni di una donna che si ricostruisce letteralmente da zero, liberandosi dalle catene della società perbenista e dell’ordine patriarcale man mano che acquisisce conoscenza ed esperienza».
Un altro aspetto degno di nota è sicuramente il bottino vuoto di Killers of the Flowers Moon ma soprattutto di Maestro, film vistosamente costruito come il più classico degli oscar bait (un tentativo di realizzare e promuovere un film proprio per vincere dei premi Oscar) da parte di un Bradley Cooper alla ricerca della prima statuetta.
Infine, vale la pena sottolineare l’ampio spazio dato a produzioni con sensibilità generalmente diverse da quella tradizionale hollywoodiana: il francese e Palma d’Oro a Cannes Anatomia di una caduta, vincitore della Miglior Sceneggiatura Originale; il già citato La zona d’interesse, produzione anglo-polacca interamente parlata in tedesco; il Leone d’Oro a Venezia Povere creature! girato da un regista greco; Past Lives, storia a metà tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud, girato da una regista sudcoreana naturalizzata canadese. Ciò è affiancato dall’alto numero di titoli più “artistici” e meno spiccatamente commerciali, più “da festival” che da grande evento di costume. Un’impostazione che sicuramente allarga gli orizzonti dell’Academy, che in questi ultimi anni più che mai sta cercando di essere sempre più inclusivo e aperto a nuove istanze, anche nella selezione dei candidati.
Di Claudia Teti e Gabriele Mutatempo