Rullo di tamburi. Uno schermo nero. Ispirato a una storia vera. 1956. Una carrellata di uomini grigi, ripresi da più punti di vista. Ma ecco uno sprizzo di colore. Una gonna azzurra. Sono pochi secondi che però, anche grazie alla scelta dell’inquadratura, catturano l’attenzione dello spettatore, mentre sullo schermo compare il titolo del film che si sta per vedere: On the Basis of Sex, in italiano: Una giusta causa. Un film biografico su Ruth Ginsburg, la seconda donna a essere nominata Giudice alla Corte Suprema, una donna che si è battuta per la parità di genere, ma sullo schermo ancora non la vediamo. La macchina da presa infatti si muove per dettagli, dettagli che sottolineano l’appartenenza al genere femminile della nostra protagonista. Mossa registica avvincente, che anticipa ciò che muove coscientemente il personaggio principale, rifiutato, nonostante il suo talento, da tutti gli studi legali, solo perché donna. Dalla gonna, alla mano, ai capelli, la macchina da presa arriva al volto di Felicity Jones, l’attrice che interpreta Ruth Ginsburg. Sorridente abbandona l’inquadratura, che rimane sfocata sulla folla maschile, segnale che il film sarà incentrato esclusivamente sul personaggio principale e su come si sia distinta dal (e nonostante il) grigio e oppressivo mondo legislativo maschilista. Si ritorna su di lei e la camera decide di seguire la protagonista, che gira su se stessa entusiasta. Con il movimento di macchina si trasmette la forza che questa donna metterà nel suo lavoro, nei suoi sogni, nei suoi obiettivi.
Il film, così presentato, si preannuncia come un prodotto funzionante, degno di un elogio, peccato che manchi quello che è, in tutti i film, il motore trainante: il need del personaggio. La storia presenta infatti un forte desire, ovvero un forte desiderio cosciente, o meglio, obiettivo esterno, ma manca di tridimensionalità, perché non ha una forza motrice che la anima inconsciamente. Il need viene abbozzato quando la protagonista rivela, in un colloquio di lavoro, l’insegnamento della madre: “Non credere alle emozioni” e quando il marito, Martin Ginsburg (Armie Hammer), nel risolvere il conflitto tra la figlia e la moglie, racconta di come sia stata cresciuta la stessa signora Ginsburg. Anche il punto di morte, punto di sceneggiatura dove sembra che la nostra eroina abbia perso, sottolinea il need della protagonista. Infatti, di notte guarda la foto della madre. La donna è quindi mossa inconsciamente dal desiderio di essere all’altezza della madre e dei suoi insegnamenti, dal desiderio di essere abbastanza e di avere un riconoscimento esterno del proprio talento. Tuttavia, esclusi questi brevi istanti, il film non presta attenzione a questo aspetto e, così facendo, disegna un personaggio piatto, privo di anima.
Il prodotto audiovisivo che ne esce risulta privo di interesse, privo di qualcosa che spinga lo spettatore a rimanere attaccato alla sedia, nonostante il tema accattivante, molto attuale e appassionante. Tema che se si voleva trattare con un desire così forte da oscurare il need, doveva essere protagonista di un’altra tipologia di storia, come i film d’inchiesta. Un film biografico, invece, che si concentra, come lascia trasparire anche l’open image, sulla figura della protagonista, senza darle, però, un corpo, è un film tecnicamente scritto male e che non avvinghia lo spettatore. In conclusione, On the Basis of Sex è un film con un tema avvincente, sì, e con una regia bene studiata, che gioca sugli stilemi del classico in modo non scontato, tuttavia manca di quello sprint in più. Manca di quella capacità di distinguere la vita reale da un’opera audiovisiva, che si differenzia dalla prima, come ci insegna Hitchcock nella sua intervista con Truffaut, perché priva di momenti di noia. In sostanza, probabilmente errando nella scelta della categoria del prodotto, la sceneggiatura si dimentica di puntare sugli aspetti drammaturgici della storia, rendendola piatta e priva di tridimensionalità. Una storia che nasce da una giusta causa, ma che ha un’ingiusta mancanza di need.
di Macha Martini