
Il mestiere del regista è quello di creare autenticità. Oh, Canada (trailer) è l’ultima opera scritta e diretta da Paul Schrader, basata sul romanzo Foregone del recentemente scomparso scrittore americano Russell Banks, al quale il film è dedicato.
In un sofferto racconto a posteriori, il cineasta Leonard Fife (Richard Gere, Jacob Elordi), ormai fortemente provato dalla malattia, getta uno sguardo all’indietro sulla sua vita davanti a due suoi ex studenti, Diana (Victoria Hill) e Malcom (Micheal Imperioli), decisi a filmare un documentario sul regista che riveriscono da sempre. Ma sarà proprio l’inflessibile sguardo della telecamera a buttare giù le fondamenta di un mito, facendo emergere dalla polvere dorata la cruda, ma vera, storia di un uomo.
Verità è vita. E niente si offre allo sguardo altrui come la copia più perfetta della verità che l’immagine cinematografica. Ma Leonard Fife, documentarista, sa bene che una verità può essere plasmata mettendo accuratamente in fila tante illusioni: è l’essenza del fare cinema. Una telecamera cattura solo quello che colui che la guida sceglie di vedere, e ciò che compare sullo schermo apparirà sempre come oggettivo a coloro che lo guardano.
E Fife, nel corso degli anni, ha fatto sì che tanti piccoli e frastagliati pezzi della sua vita andassero a formare una verità univoca per chiunque la osservasse dall’esterno. Tuttavia, al contrario dello schermo cinematografico, dove una bugia è libera di vivere una vita autonoma e autentica, nella vita reale le nostre bugie invecchiano con noi, fino a disintegrarsi tra le nostre mani quando le abbiamo tenute strette per troppo tempo.
Fife gesticola nervosamente quando racconta, per la prima volta, la verità su se stesso di fronte alla telecamera e di fronte alla moglie Emma (Uma Thurman). Inneggiato come un progressista visionario, proclama invece, attraverso una serie di ricordi confusi e sovrapposti, la storia della sua codardia: tutto si rivela come una finzione.
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L’amore come una sequela di incontri opportunistici, la carriera come una serie di lavori innescati da un casuale colpo di fortuna, il Canada come la soglia di una fuga senza oneri e doveri, al contrario di una meta duramente conquistata. Persino l’atto simbolico e ribelle di evitare la chiamata alle armi durante la guerra tra Stati Uniti e Vietnam si mostra in tutta la sua imbarazzante obiettività.
«Non posso dire la verità finché quella telecamera non sarà accesa» dice il protagonista, in un rovesciamento paradossale: solo un primo piano, inquadratura ridotta per antonomasia, potrà essere lo spazio adatto per raccontare le sue vicissitudini nella loro interezza.
E se la vita di Leonard Fife si intreccia indissolubilmente con il cinema, il film stesso è incorniciato dalla vita di Schrader, che ha scelto e costruito il soggetto dopo essersi ritrovato faccia a faccia con la sua mortalità a seguito di una forma particolarmente aggressiva di COVID-19. L’opera assume quindi i toni amari di una riflessione che funge anche da monito agli spettatori: non si può fuggire per sempre da se stessi. D’altronde, anche quando proviamo a nasconderci, l’occhio irreprensibile della realtà (sotto forma di una piccola telecamera, nei minuti finali del film) restituisce la nostra vulnerabilissima verità al mondo.
Oh, Canada è una riflessione sul cinema, sulla vita, e su come queste due cose si riflettano tra di loro in un gioco continuo di specchi. Senza distorsioni.
In sala.