Occupied City, la recensione: riverberi tra passato e presente

Occupied city la recensione

Quattro ore dense di immagini e parole, questo è Occupied City (trailer), il monumentale documentario di Steve McQueen, regista del cult 12 anni schiavo. Secondo una dichiarazione del regista ne esisterebbe anche una versione di 36 ore, il tempo impiegato per filmare ogni singolo elemento del libro Atlas of an Occupied City (Amsterdam 1940-1945) scritto dalla moglie: la storica, critica e regista Bianca Stigter. Al contrario dei documentari classici in cui le immagini sono spesso asservite a una narrazione guidata da una voce fuoricampo, Occupied City frattura la narrazione in due livelli di percezione: uno uditivo e uno visivo. Questa scelta crea due mondi a sé stanti capaci di comunicare attraverso la concomitanza di luoghi, creando così un percorso topografico.

Il livello sonoro si rifà direttamente al romanzo sopracitato: attraverso la voce narrante di Melanie Hyams veniamo bombardati da una mole immensa di informazioni riguardanti il periodo dell’occupazione nazista dei Paesi Bassi (più specificatamente di Amsterdam) dal 1940 fino alla liberazione nel maggio 1945. I frammenti slegati tra loro citano nomi, cognomi, e ruoli di individui che si possono raggruppare in: gruppi di resistenza e eroici individui che mettevano a rischio la propria incolumità nascondendo alcuni ebrei nelle loro case, vittime deportate o a chi ha preferito togliersi la vita piuttosto che finire nelle mani dei nazisti; ma anche informatori ebrei e disumani soldati tedeschi. Il ritmo sembra prendere spunto dalla poesia, difatti Hyams conclude i suoi interventi con le parole “demolito” o “parzialmente demolito”, creando un legame con il secondo livello del film, ovvero le immagini. Ogni intervento ha origine a partire dal luogo in cui è avvenuto il fatto narrato: un’inquadratura, realizzata con maestria dal direttore della fotografia Lennert Hillege, che mostra Amsterdam nel periodo del COVID19. Attraverso il filtro delle mascherine chirurgiche, osserviamo strade in parte deserte, un matrimonio celebrato in videochiamata ma anche momenti di vita collettiva, sociale e politica.

I frammenti più interessanti sono quelli in cui ciò che vediamo contrasta con ciò che ascoltiamo. Per esempio, mentre la voce narrante descrive la mancanza di luce e gas durante “l’Inverno della fame”, sullo schermo si vedono persone che nuotano in una piscina all’aperto. Al contrario si instaurano spesso connessioni significative tra il passato e il momento di pandemia, come ad esempio nella lettura dei “Dieci Comandamenti” ovvero delle regole elaborate dai gruppi rivoluzionari per facilitare lo smistamento degli ebrei e degli olandesi che si rifiutavano di spostarsi a lavorare in Germania tra le case dei residenti. Questi comandamenti parlano di non fare rumore, di mantenersi occupati con lo studio per corrispondenza o vari hobbies e, nel caso la persona “ospitata” fosse ricercata dai soldati tedeschi, nascondersi dalla vista dei vicini. Questi principi risuonano in modo potente con l’esperienza del recente lockdown, correlazione che McQueen rende esplicita mostrandoci attraverso molteplici punti di vista i cittadini olandesi rinchiusi all’interno delle loro case.

Un interesse simile viene suscitato da particolari luoghi che, durante la guerra, hanno subito molteplici metamorfosi. Un esempio di ciò è un ospedale che divenne accessibile solo a soldati tedeschi, per poi trasformarsi in una clinica per le donne incinte dei soldati e infine mutato in un luogo per i sopravvissuti all’Olocausto, una destinazione che continua ancora oggi. Allo stesso modo una scuola è stata trasformata in un centro di interrogatori e torture per i membri della resistenza e poi, una volta terminato il conflitto, è tornata alla sua precedente funzione.

Ciò di cui si sente la mancanza però è un filo conduttore, un protagonista visivo capace di ancorarci alla vasta mole di informazioni che riceviamo e che, a volte, risulta difficile focalizzare nella nostra mente continuamente attratta dalle immagini. Inoltre, la lunghezza del film e la discontinuità dei frammenti complicano l’acquisizione delle informazioni, facendo apparire ciò che vediamo più come un guazzabuglio sperimentale piuttosto che un documentario vero e proprio. Tuttavia McQueen ha costruito il film attraverso questo approccio per consentire allo spettatore di creare associazioni e dissociazioni libere, lasciando spazio a interpretazioni personali. Una scelta in parte funzionale ma che rischia di rendere il suo prodotto dedicato a un gruppo d’élite.

Su Mubi.

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