Non riattaccare, la recensione: un viaggio senza scampo

Non riattaccare recensione del film di Manfredi Lucibello

Immaginarsi gli scenari più pessimisti è una pratica fin troppo diffusa. Infatti, la sensazione di impotenza di fronte ad una situazione inopinata è una delle paure più comuni e spaventose. È di questo che ci vuole parlare Manfredi Lucibello con la sua opera seconda Non riattaccare (trailer).

Tutto avviene in una notte di pieno lockdown, tra Roma e Santa Marinella. Irene (Barbara Ronchi) riceve una chiamata dall’ex ragazzo Pietro (Claudio Santamaria) che, evidentemente turbato, minaccia il suicidio. Spinto dai bellissimi ricordi dei momenti passati insieme, che mai più ritorneranno e dai rimpianti per i gesti e i comportamenti che hanno sancito la separazione, l’uomo sembra convinto di farla finita. Da qui, la folle missione di salvataggio che porterà la donna ad una corsa contro il tempo e ad una telefonata che deve assolutamente continuare.

Sulla falsa riga di Locke, il film di Steven Knight che metteva al volante Tom Hardy, il regista fiorentino tenta di tenerci incollati alla strada, in una situazione ingestibile e, per di più, in condizioni psicofisiche precarie. Alla fine, lo spunto del film nasce proprio dalla volontà di farci rivivere quei momenti di assoluto isolamento, in cui quel poco che ci era concesso coincideva con il riflettere su noi stessi e sulle cose che non andavano. È in questo contesto che, allora, Pietro e Irene rivivono il flashback immaginario della loro vita: l’iniziale eccitazione, la casa al mare, i primi attriti a Ginevra… In questo modo, il tempo è scandito dal ritmo caotico dei ricordi e dall’immanente sensazione di smarrimento, che è lì pronta a ghermirci.

Ispirato al romanzo omonimo di Alessandra Montrucchio, Non riattaccare tenta di introiettare le caratteristiche di un thriller psicologico e sentimentale, in cui i veri protagonisti sono i fantasmi del passato. Quegli spiriti maligni che non siamo riusciti a sotterrare e che, nei momenti di maggiore debolezza, riemergono prendendo il sopravvento. Il contesto oscuro e spettrale cerca di restituirci proprio queste presenze, all’apparenza invisibili ma spaventosamente tangibili e pericolosamente influenti. È nei luoghi di passaggio (la pompa di benzina, l’autogrill) che esse diventano palpabili, negli incontri con i personaggi più spiacevoli (il molestatore), nella paura che il telefono si scarichi o che la benzina finisca. Ma a questi momenti d’angoscia si contrappongono anche quelli di fiducia. Tutti, infatti, soprattutto nei momenti peggiori, necessitiamo di un’ancora di salvezza che in noi tenga viva la speranza, come quando il poliziotto la lascia andare anche senza autocertificazione.

La possibilità che Irene si addormenti a causa dei sonniferi e la paura che Pietro decida di riattaccare, sancendo la sua fine, sono ben restituiti dai dialoghi di Jacopo Del Giudice e Lucibello stesso, che ne firmano la sceneggiatura. E se anche le musiche di Motta incarnano un ruolo fondamentale nella costruzione tensiva, sono soprattutto il volto di Barbara Ronchi, la sua sbadataggine, la disperazione, la rabbia che emana ma soprattutto la ferma volontà di non arrendersi ad essere il motore della visione.

Ma l’introspezione psicologica e il coinvolgimento emotivo che si creano nei primi 45 minuti sono destinato a svanire. Ciò che rimane è una narrazione da cui non emerge quella sensazione di asfissiante claustrofobia che, invece, in questo caso sembrerebbe doverosa. Infine, l’epilogo abborracciato ed eccessivamente sbrigativo suggella il nostro disincanto.

Dall’11 Luglio al cinema.

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