Nel mio nome (qui il trailer) si apre con un paesaggio notturno che vediamo lentamente albeggiare. La scena iniziale è fondamentale perché racchiude in pochi secondi il messaggio centrale del documentario di Nicolò Bassetti, prodotto da Elliot Page e presentato al Festival di Berlino 2022. Vediamo un passaggio, una transizione letterale dal giorno alla notte che ci ricorda la transizione dei quattro protagonisti.
Leonardo Arpino, Nicolò Sproccati, Raffaele Baldo e Andrea Ragno sono quattro ragazzi che stanno affrontando una transizione di genere non senza complicazioni. Nel corso dei novanta minuti in cui li conosciamo i quattro protagonisti ci comunicano le loro difficoltà, ci raccontano del loro passato e di cosa hanno dovuto superare per arrivare fino a quel momento. «L’idea che a distanza di chilometri abbiamo fatto la stessa cosa per trovare benessere mi rende felice» dice uno di loro, delimitando il filo conduttore del documentario: le quattro vite che ci vengono raccontate sono molto diverse, ma in realtà spaventosamente simili. Le sensazioni che hanno caratterizzato la loro adolescenza, le battaglie che hanno combattuto e le loro sofferenze hanno le stesse tinte, ognuno di loro si riconosce nelle difficoltà dell’altro ed è questo che arriva a chiunque guardi.
«Io voglio galleggiare là fuori, senza peso» dichiara Andrea mentre si racconta, comunicando la sua voglia di leggerezza, il desiderio di essere finalmente chi è sempre stato. Il documentario scorre senza di frizioni, non vengono fatte domande ai ragazzi, i quali sono liberi di raccontarsi come meglio credono, gettando luce sulle zone d’ombra, quelle che raramente vengono mostrate nelle narrazioni hollywoodiane. L’aperta campagna fa da sfondo ai quattro amici bolognesi, opponendosi con la sua immobilità alla veloce trasformazione che investe le vite dei ragazzi, regalando un po’ di pace, di meritata stasi in mezzo al caos.
La domanda «Cosa sei?» con tutta la sua potenza disumanizzante viene affrontata quando i quattro discutono della loro infanzia. Raccontano che, da piccoli, non riuscivano a comprendere a pieno perché si sentissero sempre un po’ a disagio, sempre un po’ fuori posto. Il passato, però, si oppone direttamente al presente, dove vediamo quattro persone in pace con loro stesse, che finalmente sanno rispondere a una domanda molto più vera e tanto più universale della precedente: «Chi sono?». Il documentario ci pone, dunque, nella posizione di un voyeur, che spia dal buco della serratura le vite di quattro ragazzi per i quali ci si ritrova a fare il tifo, sperando che riescano a trovare pace, a essere liberi dall’oppressione («È come una malattia cronica, solo che non sei malato, sei oppresso.» ci racconta Leonardo).
Il novantesimo minuto si chiude con un ritorno all’inizio, vediamo il paesaggio dei primi minuti tingersi di scuro, decretando il tramonto del racconto a cui ci è stato permesso di assistere, ma non dell’esperienza di Nicolò, Raffaele, Andrea e Leonardo. Nicolò Bassetti riesce a dirigere la storia con uno sguardo mai invadente, creando numerose occasioni di dialogo e lasciando che siano i ragazzi a raccontarsi. Non si impone sulla narrazione, che si snoda con naturalezza, trascinando lo spettatore in un turbinio di aneddoti e confessioni.
Nel mio nome è nei cinema dal 13 giugno.