830 contenuti, di cui 516 film, 170 serie tv e 144 documentari. Questa è l’offerta con cui Netflix è stata lanciata in Italia il 22 ottobre 2015. House of Cards, Orange Is The New Black, Marvel’s Daredevil. Sono solo alcuni dei prodotti che la società americana ha realizzato e che hanno conquistato il plauso della critica e del pubblico. L’inizio della stagione televisiva 2015-2016 ha visto imporsi proprio una serie tv targata Netflix: Narcos. È paradossale tuttavia parlare di serialità con il fenomeno del binge watching: traducibile con maratona di visione, il binge watching è la pratica di vedere cinque, dieci episodi di una serie televisiva di seguito, senza interruzione; inizialmente diffusa tra i fan grazie ai cofanetti di dvd, è ora tornata alla ribalta grazie a Netflix, che al lancio di una nuova serie tv ne rende immediatamente disponibili tutti gli episodi. Narcos ripercorre la scalata al potere del colombiano Pablo Escobar, il più grande e ricco narcotrafficante di tutti i tempi. Da Il Padrino a Scarface, da C’era una Volta in America a Quei Bravi Ragazzi, fino allo sbarco sul piccolo schermo con I Soprano, Romanzo Criminale e Gomorra. Che si tratti di film o serie tv, che sia un prodotto autoriale o mainstream, il genere gangster si è sempre basato sull’eterno tòpos della seduzione e della capacità attrattiva del cattivo. Un meccanismo insito in questo genere fa sì che l’ingranaggio dell’empatia dello spettatore ruoti sempre in favore del criminale, portando spesso a dimenticarsi non solo dei “buoni”, ma anche della storia raccontata nel suo complesso.
È su questo piano che Narcos si discosta dai suoi simili: pur facendo parte del genere, riesce a ritagliarsi la propria identità allontanandosi dai cliché a cui siamo abituati. Non ci sono ideologie, nessun ricordo che pretenda di spiegare la natura criminale del protagonista. Solo il forte desiderio di equipararsi a quell’élite che lo ha denigrato, di rialzare il suo status sociale perché, come lui stesso ricorda, «pensa come povero e vivrai come un povero». La regia di Jose Padilha, forte nelle sue scelte e mai banale, è il perno attorno a cui ruota l’innovazione di Narcos: l’utilizzo dello spagnolo nonostante sia una produzione americana, così come la scelta di un ritmo rilassato, quasi lento, aiutano a partecipare emotivamente alla storia, in una piena aderenza alla cultura sudamericana. Il modo con cui si raffigura Escobar, alternando scene di grandissima violenza a momenti di forte intimità del boss colombiano, ha un effetto straniante sullo spettatore. La rappresentazione dell’uomo dietro il narcotrafficante non è intesa ad umanizzare il pericoloso criminale o a giustificarne le manie di onnipotenza, bensì a mostrare quelle pretese-debolezze di cui sarà poi vittima.
Ribaltando sistematicamente il punto di vista, il processo immedesimativo del pubblico viene alterato, catalizzando l’attenzione esclusivamente sulla storia raccontata. La forte presenza di materiale di repertorio, che dona alla serie un tono documentaristico, si unisce alle già citate scelte registiche assottigliando il confine che separa realtà e finzione, verità e storia romanzata, ciò che Pablo Escobar è stato e ciò che il suo mito ha rappresentato. Di fronte all’inevitabilità che un racconto sui gangster sia archetipico, Padilha ha saputo amalgamare realtà, finzione, documentario e storytelling, realizzando un prodotto audiovisivo incentrato sulla potenza del Racconto. Quella del regista in fondo, non è altro che la pura adesione alla filosofia dello stesso Escobar, «plata o plomo», soldi o piombo: non esistono compromessi o vie di fuga, non esistono moralismi né esaltazioni, esiste solo la Storia del più grande trafficante di cocaina di sempre, che con un patrimonio di quasi 30 miliardi di dollari riuscì anche a rientrare nella lista dei dieci uomini più ricchi al mondo stilata da Forbes.
Gianluca Badii