Morrison (qui il trailer) è un film di Federico Zampaglione, distribuito da Vision Distribution, tratto dal romanzo Dove tutto è a metà scritto dallo stesso Zampaglione e da Giacomo Gensini, quest’ultimo anche nei panni di sceneggiatore. Nel cast principale troviamo Lorenzo Zurzolo, nel ruolo di Lodo, un aspirante cantante, e Carlotta Antonelli interprete di Giulia, un’aspirante attrice.
Lodo è il frontman dei Mob, una band di ragazzi col sogno di “sfondare” che abitualmente suona al Morrison, un locale situato sulle sponde del Tevere, al centro di Roma. Sarà il proprietario del locale a dare alla band la possibilità di performare davanti a un importante produttore discografico che potrebbe lanciare la loro carriera. Il nostro protagonista farà nel frattempo la conoscenza di Libero Ferri (Giovanni Calcagno), un cantante navigato che proverà a prepararlo in vista di questa prova importante. La trama “professionale” si intreccia strettamente con quella amorosa, che vede Giulia e Lodo avvicinarsi e innamorarsi mentre di mezzo si metteranno alcune situazioni impreviste.
Morrison ripercorre sentieri narrativi visti e ri-visti, appiattendosi sull’essere un classico teen drama che va avanti per la comoda via dello stereotipo. Nel lavoro di sceneggiatura non ci si dovrebbe adagiare su facili scorciatoie, poiché il pubblico odierno è ormai in grado di riconoscere certi collaudati sviluppi narrativi. Una volta indovinato lo scenario possibile, lo spettatore si sente gratificato e perde ogni interesse per lo svolgimento della trama.
Il finale di Morrison è facilmente intuibile già a metà del percorso, quando il rapporto tra Giulia e Lodo inizia a logorarsi. Lo stereotipo porta a una narrazione superficiale e quindi a uno sviluppo veloce del racconto. Troppo veloce. Infatti assistiamo a più capovolgimenti nella vita di Lodo che avvengono in maniera affrettata, tratteggiati pigramente. Ad esempio, quando la band è in crisi, il ragazzo decide di lasciare il mondo della musica. Disgustato da ciò che può accadere in un ambiente tanto competitivo, si trasferisce in un’altra città. Soltanto poche scene dopo lo vediamo saltare allegramente sul furgoncino dei Mob pronto a fare un ritorno in grande stile.
Il sentimento di delusione è qualcosa di difficile da superare, soprattutto se ci va di mezzo il sogno nel cassetto. Quando, nella sceneggiatura, non si dà al personaggio il tempo materiale per superare certi traumi, risulta difficile anche all’attore restituire quelle emozioni in maniera efficace.
E a proposito di cliché, nella band troviamo i soliti personaggi: il ragazzo cicciottello, simpatico ma incapace di catturare l’attenzione di nessuna ragazza; il batterista bravo e silenzioso e i due “fighetti” della compagnia che si contendono la leadership e le fan più belle che li aspettano fuori dal camerino con l’apparecchio da denti nuovo di zecca.
L’età giovanile è un’età profondamente traumatica in cui si sperimenta il passaggio delicato tra età dell’innocenza ed età della responsabilità. Lodovico nel corso del film avrà a che fare con un lutto molto importante, ma dimenticherà tutto dopo che gli amici gli avranno dato qualche pacca miracolosa sulla spalla nei corridoi di un ospedale. Questa superficialità con cui si ritrae lo spaccato della vita dei giovani permea la grande maggioranza di film e serie TV con cui ci interfacciamo quotidianamente ed è frutto di una classe politica che continuamente ignora i giovani pur definendoli “Il futuro di questo Paese”.
Una narrazione lontana anni luce dalla sensibilità che invece traspare da film come Gioventù Bruciata (1955, Nicholas Ray), Il Laureato (1967, Mike Nichols), American Graffiti (1973, George Lucas) o serie TV più recenti come The End Of The F***ing World (2017-2019). La storia del cinema è satura di storie di band che si dividono, che sorprendentemente si riuniscono e che nell’ultima scena del film iniziano un concerto che verrà interrotto sul nascere dai titoli di coda. Se si vuole raccontare una storia così “telefonata” bisogna trovare almeno un modo innovativo per raccontarla.