Lo scorso 21 gennaio si è spento all’età di 77 anni Terry Jones, membro dei Monty Python. I suoi compagni lo ricordano come un artista appassionato, sensibile ed eclettico: regista dei tre film più importanti del gruppo, nella sua carriera da “solista” ha spaziato dalle fiabe per bambini ai documentari storici, firmando, tra le altre cose, la sceneggiatura di Labyrinth, l’iconico fantasy con David Bowie.
La fortuna dei Monty Python inizia alla fine degli anni ’60, quando vengono ingaggiati la BBC per realizzare una nuova trasmissione. Il risultato è il Monty Python’s Flying Circus, un programma anarchico, dissacrante, fatto di sketch surreali legati tra loro da un continuo gioco di rimandi e dalle psichedeliche animazioni di Terry Gilliam.
Nel 1971 arriva il debutto cinematografico con And now for Something Completely Different, che raccoglie gli sketch e i personaggi più divertenti delle prime due stagioni. Come nella trasmissione, le scene si articolano attraverso quello che gli stessi Python hanno definito un “flusso di coscienza” e prendono di mira il perbenismo e la rigida ottusità dei personaggi più rappresentativi della società inglese, in particolare le autorità politiche, militari, ecclesiastiche e dei mass media. Il film avrebbe dovuto portare il gruppo comico sul mercato statunitense (tra i finanziatori compare anche la rivista Playboy), ma più che negli States venne accolto calorosamente in patria, dove i Python erano ormai considerati alla stregua dei Beatles.
Finita la parentesi televisiva del Flying Circus, i Python si mettono a lavorare su un nuovo lungometraggio, costruito questa volta attorno ad una storia unica. Nel ’75 esce Monty Python and the Holy Grail, una rivisitazione delle avventure di re Artù (Graham Chapman) e dei cavalieri della tavola rotonda. Alla regia ci sono i due Terry, Jones e Gilliam, entrambi al loro debutto, mentre la sceneggiatura è come sempre firmata da tutti e sei. I limiti imposti dal budget (meno di 230.000 sterline investite da nomi del calibro di Pink Floyd e Led Zeppelin), vengono aggirati con soluzioni geniali, in perfetto stile Python: per esempio in mancanza dei cavalli, Patsy (Terry Gilliam) e gli altri valletti seguono i cavalieri battendo due noci di cocco per simulare il rumore degli zoccoli. Nonostante le ristrettezze economiche e le carenze della trama centrale, il film ha successo anche all’estero: in Italia esce nel 1976, ma il doppiaggio nei dialetti regionali italiani ovviamente non gli ha reso giustizia.
Quattro anni più tardi arriva l’idea per un terzo film: un adattamento della storia di Gesù. Alla prima lettura dello script, i produttori si dileguano. Scherzare sulla religione è troppo anche per i Monty Python. Alla fine è un’altra eminenza della musica a finanziare il film: George Harrison, loro fan e amico. Così nel ’79 esce Monty Python’s Life of Brian, la storia di un uomo nato nella stalla accanto a quella di Gesù e che si ritrova a vivere esperienze analoghe. Questa volta Jones è l’unico regista e si approccia alla vicenda da un punto di vista storicistico. Ne esce un racconto decisamente più umano e per certi aspetti più verosimile di quello che ci si aspetterebbe: Brian (sempre Chapman) vorrebbe unirsi ad un gruppo di sovversivi per liberare il suo paese dall’oppressione romana, ma alla fine rimane travolto degli eventi e della smania del suo popolo di trovare un Messia che gli dica cosa fare. A niente vale il sentito discorso che Brian rivolge ai suoi seguaci sull’importanza di essere liberi e pensare con la propria testa. Un momento di toccante profondità che alla fine strappa un sorriso amaro e qualche riflessione. Come il finale, quando tutti potrebbero salvare Brian dalla crocifissione ma nessuno lo fa, perché infondo è più utile così. Insomma, Brian di Nazareth non è una parodia della storia o della figura di Gesù, ma della strumentalizzazione che ne è stata fatta. Il film viene censurato in Norvegia e in Italia (dove uscirà solo dodici anni più tardi), ma è di nuovo un successo.
I Monty Python sono ormai comici di fama internazionale e l’Universal Pictures stanzia 8 milioni di dollari per la produzione di un altro film. Così nel 1983 esce Monty Python’s The Meaning of Life, quarto e ultimo film del gruppo, sempre per la regia di Terry Jones (Gilliam dirige il corto di apertura). I Python tornano alle origini, al flusso di coscienza e agli sketch, unificati ora da un tema comune. Il budget permette finalmente una maggiore cura della messinscena. Gilliam inizia ad animare i suoi cartoon in digitale con effetti straordinari, mentre gli inserti musicali di Eric Idle diventano sempre più presenti e curati, tanto da strizzare l’occhio al musical. Non solo. C’è anche tanto teatro, da Brecht a Sartre. I Python premono l’acceleratore del grottesco e della critica dissacrante, inserendo tra una facezia e l’altra importanti spunti di riflessione. Il flusso di coscienza è in qualche modo strutturato da una sorta di cornice e dagli sketch divisi in sette capitoli, corrispondenti alle diverse fasi della vita. A metà del film scopriamo di assistere, in realtà, ad un programma televisivo. Il linguaggio cambia. Mano mano il filtro della quarta parete viene spazzato via e i personaggi iniziano a rivolgersi direttamente alla macchina da presa, che con i suoi movimenti, prende parte attiva nel racconto.
The Meaning of Life vince il Gran Premio Speciale della Giuria al 36° Festival di Cannes. È il loro miglior film e purtroppo anche l’ultimo. Nel 1989 muore Chapman lasciando nel gruppo un vuoto incolmabile sul piano emotivo e artistico. Si chiude un’era, ma i Monty Python continueranno a fare scuola, perché ogni loro film è un esperimento innovativo, irriverente e profondo al tempo stesso, frutto della collaborazione democratica di sei talenti straordinari che hanno rivoluzionato l’idea stessa di comicità.