Poco hindi e niente musical. Ad accompagnare le coreografie di corpi è unicamente il volteggiare di pugni, pugnali, pistole e, soprattutto, sangue. Monkey Man (trailer) è il primo film alla regia dell’attore di origini indiane Dev Patel, che all’esordio decide di cimentarsi in un revenge movie, senza però riuscire a sfilarsi da una matassa di lungometraggi all’apparenza tutti uguali. È inutile, in una delle prime scene, la presa di distanza con il film al quale è più immediato associarlo: John Wick. Kid, il protagonista di Monkey Man, rifiuta infatti una pistola TTI, la stessa dell’assassino interpretato da Keanu Reeves, ma nel corso della storia verrà aiutato da un cane, venendo meno a quel distacco marcato in precedenza.
È facile lasciarsi ispirare e difficile rubare, ma Patel riesce a girare le scene d’azione con forte dinamismo e personalità. Alternando oggettive, soggettive e false soggettive restituisce un senso di fluidità all’azione che bilancia una piatta e mal gestita narrazione. La vendetta del protagonista è indirizzata a una élite di sinistra che si fa strada nella politica di una fittizia città indiana attraverso sangue e corruzione. Non è un caso che la furia di Kid ricada sul poliziotto, Rana (Sikandar Kher), che ha ucciso sua madre. Oltre al sangue sono messi in bella mostra anche i muscoli. Già dall’inizio del film si vede il protagonista in un incontro clandestino di lotta in cui indossa una maschera da scimmia, chiave di lettura privilegiata dell’intera vicenda. Quest’ultima rimanda alla leggenda di Hanuman, il Son Goku indiano, simbolo di saggezza, forza e giustizia, ma anche l’incarnazione del dio Shiva, simbolo di distruzione e rinnovamento. Kid si renderà conto del proprio destino attraverso la conoscenza di un monaco. Egli presiede un tempio dove si nasconde una comunità transgender (hijira) di guerrieri che aiuteranno il protagonista a rimettersi in forma. I vari flashback della madre, insieme alle immagini che narrano la leggenda di Hanuman, tentano di ispessire un personaggio alquanto canonico all’interno di un contesto, quello indiano, all’apparenza nuovo.
Il carattere culturale e sociale, che poteva essere un punto di forza del film, viene, nondimeno, liquidato in poche scene, cosi come i personaggi secondari vengono appena abbozzati. Le scene d’azione dominano il tutto, dai fight club dei bassifondi ai palazzoni dei ricchi dove si risolve la vicenda in un finale che lascia poco spazio alla fantasia. Il John Wick indiano risale a suon di mazzate un Continental di prostituzione e riesce a vendicare la morte della madre, uccidendo il poliziotto e anche Baba Shakti (Makarand Deshpande), il guru religioso dietro i massacri politici. È difficile empatizzare per il protagonista, nonostante una brillante interpretazione di Dev Patel che esce dai panni del giovane timido e minuto, per indossare finalmente con fierezza l’armatura con cui ha affrontato nel 2021 il Cavaliere verde nel film di David Lowery.
La rabbia e la vendetta offuscano i sentimenti più nobili e con essi la macchina da presa, perché se è vero che il lavoro di Patel nel profilmico è lodevole, quello nel filmico non è alla stessa altezza. La cinepresa è sempre vicina ai personaggi, come una grande lente di ingrandimento, che invece di chiarificare, confonde, disorienta e nelle scene più concitate talvolta nausea. Manca di totali. Manca di un ritmo ben organizzato, dove l’assenza di pause, specie nella sezione iniziale, si fa sentire. Manca di una mano esperta; il ruolo di Jordan Peele come art director non aiuta a soccombere le lacune tecniche. Il suo nome è uno specchio per le allodole che non riflette i raggi del sole, ma la scarsa intensità di una debole opera prima.
Dal 4 aprile al cinema.