Quello di Ana Lily Amirpour è un talento cristallino e su questo non si può questionare. È intelligente, sa come posizionarsi dietro una macchina da presa, sa come posizionare la macchina da presa, sa come costruire la messa in scena e donare immaginario immediato. Sin dal suo primo film, A Girl Walks Home Alone at Night, si è dimostrata capace di creare traiettorie alternative all’interno delle quali inserire le sue protagoniste femminili, esseri che sono degli outsider dotati di poteri paranormali o caratterizzazioni fisiche che ne definiscono lo stacco dal mondo comune, come accade anche nel successivo The Bad Batch.
Mona Lisa and the Blood Moon, presentato nella selezione del Concorso della 78esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, non rifugge questa equazione e anzi abbraccia il teorema facendolo esplodere sotto acidi. C’è l’outsider, ci sono i superpoteri, c’è la lotta per la sopravvivenza per scappare da un passato vagamente evocato ma di cui le peculiari eroine della regista di origini iraniane sono sostanzialmente sempre prive. Devono solamente muovere in avanti in un processo di riappropriazione e affermazione del sé, senza guardarsi indietro.
Tutt’attorno la messa in scena, stazioni in cui la Mona Lisa protagonista del film (Jeon Jong-seo) passa come se fossero parte di una via crucis ritmata a colpi assordanti di heavy metal e techno italiano. Il gusto, anche visivo, è un ultrapop portato allo stremo in cui Mona Lisa and the Blood Moon sguazza, fatto di neon a ogni costo e una customizzazione generale estremamente cacofonica. Niente più del “Rave to the grave” stampato su una maglietta che la ragazza indossa a un certo punto del film pare qualificare in tutto e per tutto l’intenzione di approccio della Amirpour al suo cinema. Nessun compromesso.
Il fatto però qual è, che la regista affida allo stile il compito di sobbarcarsi la spina dorsale dei propri film, percorsi da flebili linee narrative pronte a spezzarsi in ogni momento e quindi puntellate qui e lì, ancora una volta, dagli steroidi e dal gusto glam. Dei tre, quello presentato a Venezia è probabilmente il più solido nonostante si mantenga dalle parti di una piccola novella senza arte né parte, personalissima rivisitazione di un genere fantasy volto all’avventura che non ha mai la pretesa di aggiungere nulla ma nemmeno si sforza di trovare una propria dimensione.
È vero, quando si ha una personalità forte alla regia come lo è quella della Amirpour la discussione su cosa sia necessario e cosa no all’interno del film perde di senso (sempre che ne abbia mai avuto uno). Lo script non è terribile, lo abbiamo detto, capace di divertire con poco e segnare un percorso dove trovano spazio incontri rocamboleschi con i personaggi di Kate Hudson, Craig Robinson, Evan Whitten ed Ed Skrein, tutti nella parte e che concedono simpatici punti di fuga. Da una parte pare Hustlers, da un’altra raccoglie la frenesia psichedelica di Good Time, ma l’impressione che rimane alla fine della fiera è la mancanza di una mano più ferma e meno volatile in fase di scrittura.
E sia ben chiaro, non tanto per raggiungere l’accettabilità, ma anzi per sublimare un lavoro dal potenziale inesploso, sempre sull’orlo del pirotecnico che si accontenta di fiammate e non usa mai il tritolo. L’Amirpour ha così tanto da dare, ed è per questa ragione che noi la attendiamo con fiducia, certi che lavori come Mona Lisa and the Blood Moon siano solo un terreno di preparazione a un’opera d’arte, piena, che attende dietro l’angolo per schizzare sullo schermo.