Un fratello e una sorella divisi da venti anni, la morte improvvisa del padre che li costringe ad avvicinarsi di nuovo, una malattia che mette a dura prova gli equilibri famigliari. Questi sono i presupposti di Mio fratello, mia sorella (trailer), film di Roberto Capucci, atteso l’8 Ottobre (solo) su Netflix.
I temi che il film tocca sono svariati: il lutto che destabilizza, il controverso rapporto genitori/figli, il passato che torna a galla e spaventa, ma sicuramente il più importante, o almeno quello a cui il prodotto di Capucci sembra tendere in maniera preponderante, è la malattia, ed in particolare la schizofrenia. Questa patologia, che il giovane Sebastiano (Francesco Cavallo) affronta da anni, si riversa inesorabilmente su sua madre Tesla (Claudia Pandolfi) che, scossa quotidianamente dall’ansia di mantenere tutto sotto controllo, si trova destabilizzata dal “prepotente” ritorno di suo fratello Nik (Alessandro Preziosi). Per approcciarsi al ruolo, l’esordiente Cavallo, ma anche il cast in generale, ha intrapreso uno studio diretto della malattia, partecipando ad incontri con i pazienti e le loro famiglie in una clinica specializzata. Sicuramente l’attenzione e il rispetto con i quali ci si è approcciati alla patologia si avvertono, però la tematica sembra non essere sviscerata così a fondo, appare più che altro come un collante che unisce i vari filoni della storia.
L’idea che si ha guardando Mio fratello, mia sorella, è che non ci sia il giusto equilibrio. Alcune sequenze che avrebbero potuto avere una rilevante forza drammatica non sono state sfruttate pienamente, o almeno, sembra che rimangano un po’ in superficie e non riescano a toccare il giusto picco emotivo. Dall’altra parte determinate scelte registiche appaiono didascaliche e lasciano allo spettatore poca autonomia e libertà di approcciarsi in maniera personale al prodotto. Anche per questo, nonostante le interpretazioni di gran parte degli attori siano convincenti, non ci si sente completamente partecipi nelle vicende dei protagonisti.
Il film tende verso la ricerca di verità e nella prima parte riesce in parte a trovarla. Il finale però risulta frettoloso, poco realistico, un happy ending quasi dovuto che pretende di riparare alle travagliate sventure dei protagonisti. L’idea era probabilmente quella di trasferire un messaggio di speranza, un invito a non arrendersi ai problemi, alle malattie, ai conflitti famigliari, ed il tutto è apprezzabile, ma sembra che non si sia data abbastanza importanza alla costruzione della risoluzione finale, con la conseguente caduta nei prevedibili luoghi comuni che spesso interessano questa categoria di film.
Mio fratello, mia sorella non esce fuori dai soliti registri, non aggiunge qualcosa di nuovo nel panorama del cinema italiano. Nonostante questo, però, risulta un prodotto piacevole, è palpabile la forte passione che il regista e gli stessi attori ci hanno messo per realizzarlo. Una cosa è certa: è sempre una scelta coraggiosa quella di trattare e trasporre sullo schermo problematiche legate a malattie nervose, soprattutto perché c’è il pericolo di bruciarsi con grandi scivoloni, se non ci si approccia con il giusto rispetto e con la competenza adatta. Qui di scivoloni non ce ne sono, anzi, questo film ci ricorda che bisogna svincolarsi dal tabù della patologia mentale come problema, come motivo di esclusione dalla società.