Mickey 17, la recensione: l’ironia della morte

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«Cosa si prova a morire?»

L’immaginario fantascientifico in ambito cinematografico nasce in risposta ad alcuni dei più grandi interrogativi intrinsechi alla natura umana. Costituisce cioè un potente mezzo per analizzare e osservare sotto una diversa luce, spesso quella di mondi lontani, problematiche esistenziali e politiche radicate all’interno della società contemporanea, rappresentando un perfetto valzer tra forma di evasione e spunto di riflessione. Da opere che non hanno timore di prendersi sul serio, come il capostipite 2001: Odissea nello spazio o i più moderni Interstellar e Arrival, ad intere saghe, come Star Wars, o al contrario a film dal puro intento parodistico nei confronti della fantascienza stessa, si è dimostrato nel tempo un genere estremamente versatile. Questa duttilità può però essere un’arma a doppio taglio, e sono pochi dunque i registi che sono riusciti a maneggiarla con cautela e ad afferrarla per il manico.

È ciò che tenta di fare Bong Joon-ho, con il suo attesissimo Mickey 17 (trailer), primo film del regista sudcoreano dopo il pluripremiato Parasite. Si tratta di un soggetto non originale tratto dal romanzo Mickey7 dello statunitense Edward Ashton. Questo vede come protagonista Mickey Barnes, giovane che spinto dai debiti ricerca l’evasione nel senso più letterale scegliendo di partecipare a una campagna ideata dal politico Kenneth Marshall (un eccellente Mark Ruffalo), impegnato a inseguire disperatamente il consenso popolare. L’idea di fondo consiste nel colonizzare un nuovo pianeta, Niflheim. Per non assumersi troppi rischi e proteggere i suoi sostenitori, Marshall sceglie di servirsi di un “sacrificabile”, cioè una vera e propria cavia che testi medicinali sperimentali, si infetti volontariamente con virus sconosciuti e si faccia bruciare la pelle dalle radiazioni, per poi ogni volta morire ed essere ricreato in una copia identica che mantiene intatti anche i suoi ricordi. A ricoprire questo ruolo sarà proprio Mickey.

Il tentativo di Bong Joon-ho di inserirsi nella tradizione extraterrestre sembra funzionare: si articola così una film dal tono spiccatamente comedy ed ironico, senza mai (o quasi) cadere però nell’esagerazione. Il ritmo della narrazione e dell’elemento visivo è ottimo, grazie allo splendido lavoro del montatore Yang Jin-mo che aveva già avuto modo di dare prova delle sue qualità in Parasite ed Okja. Ad accompagnare all’inizio lo spettatore all’interno della storia è la voce narrante quasi fumettistica di Robert Pattinson, chiaro segno della resa chiara e limpida che il regista sudcoreano ha ormai reso la sua cifra stilistica. Non c’è infatti mai nulla di troppo velato, né una ricerca ossessiva di simbolismi intricati, ma questo non implica una totale mancanza di profondità.

Mickey 17 ha così al suo interno una moltitudine di tematiche, forse anche troppe, ma nel complesso ben gestite, sebbene talvolta appena accennate. Tornano la questione ambientalista, il confronto con il “diverso” e la critica al capitalismo. Centrale è poi ancora una volta il divario tra oppressi ed oppressori, individuabile in Parasite, reso netto in Snowpiercer e qui simbolicamente espresso mediante il trattamento meschino e privo di ogni interesse empatico di Marshall e la sua fedele compagna Ylfa (interpretata da un’ottima Toni Collette) nei confronti del sacrificabile Mickey, ma anche dell’alieno “strisciante”. Sarebbe semplice, e forse un po’ scontato, riconoscere in loro tante delle personalità politiche contemporanee, con l’unica differenza che qui Marshall le elezioni le perde per ben due volte.

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Ad essere innovativa è invece la riflessione che scaturisce dall’errore per cui viene creato un Mickey 18 quando il numero 17 risulta essere morto, mentre è in realtà solo disperso. La fortuita coesistenza delle due copie, severamente vietata pena la morte, le porterà infatti a scontrarsi aspramente per la sopravvivenza. Mentre Mickey 18 cerca di sopprimere l’avversario si domanda interdetto sul perché l’altro opponga resistenza quando è già morto e replicatosi 17 volte. Mickey 17 spiegherà allora che morire avendo la certezza di rinascere come in un ciclo continuo è ben diverso emotivamente dall’interromperlo morendo con la nuova copia già in vita.

Per quanto apparentemente assurdo e lontano dalla nostra dimensione, questo spunto mette sotto la lente di ingrandimento un nucleo implicitamente centrale già a partire dalla trama stessa e a tutti noi comune: la morte. Questa è stata negli anni centro dei più grandi interrogativi della specie umana, catturando letteratura ed arte, religione e filosofia. C’è chi crede che l’esistenza stessa della morte tolga significato all’atto di nascere, per cui tanto vale non vedere mai la luce. Chi vede nella vita sotto il sistema capitalista l’inevitabile morte dell’uomo, che non diventa altro che una macchina con un cuore al posto del motore. Chi invece ritiene che sia proprio il cessare stesso dell’atto di vivere a donare valore all’esistenza. Mickey 17 rappresenta una somma di tutto ciò: da uomo ridotto ad essere oggetto sfruttato e riprodotto in serie si ritrova a fuoriuscire da questo ciclo malato ma protettivo, ed è qui che realizza il valore effettivo della morte. Così, seppur con iniziale dolore e timore, essa diventa allegoricamente strumento di affermazione di sé stessi come veri esseri umani.

Racchiudere questi brevi ma stimolanti spunti all’interno delle sequenze dalla spiccata ironia è reso possibile grazie ad una sceneggiatura ben costruita e ad un ottimo cast, tra cui emerge uno straordinario Robert Pattinson, protagonista e co-protagonista allo stesso tempo, che riesce a dare spessore e diversificare abilmente le diverse copie dallo stesso volto. Unico neo nel ben riuscito lungometraggio è forse la resa dell’ultimo atto, in cui per la prima volta si percepisce il peso del tempo trascorso da inizio proiezione e che perde un po’ di brillantezza nel finale.

Complessivamente Mickey 17 riesce dunque nel suo intento, intrattenendo e divertendo senza essere superficiale anche spettatori occasionali e offrendo raffinatezze visive e narrative per appassionati cinefili, come l’orecchio mozzato che onora oggi ancora di più il ricordo di David Lynch. Il premio Oscar Bong Joon-ho dimostra ancora una volta di essere un maestro della regia, regalando agli spettatori due ore e 17 minuti di una storia assurda e assolutamente coinvolgente.

In sala dal 6 marzo.

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