Quello che porta la firma di Alex Infascelli è stato forse l’evento speciale più atteso della quindicesima edizione di questa Festa del Cinema di Roma. Sì, perché il documentario Mi chiamo Francesco Totti (trailer), che sarà al cinema soltanto dal 19 al 21 ottobre, non è soltanto un’opera fatta per ricordare la carriera di uno dei calciatori più famosi e forti del mondo ma è un film in cui lo spettatore si sente portato per mano nella vita di Totti attraverso la sua voce. Una voce genuina, spontanea, decisamente colloquiale che, raccontandosi, racconta senza filtri una vita passata nello stadio di Trigoria tra le gioie dello scudetto del 2001, i mondiali del 2006 e la Scarpa d’Oro del 2007 e i dolori dell’infortunio poco prima del mondiale fino ai dissapori con Spalletti.
Il campione sarebbe dovuto essere presente alla proiezione e all’incontro con il pubblico ma, a causa della recentissima morte del padre, non è potuto essere in sala. Forse, come ha ribadito anche Infascelli nel presentare il film, si è avverata una profezia: il desiderio di Francesco di essere invisibile per un giorno e quel giorno è stato proprio sabato. Il pubblico che c’era però è stato il segnale di quanto oramai, per “seguire” un mito come lui, non serva la presenza fisica ma basti il nome, basti soltanto vederlo in video per avvertirlo in carne ed ossa.
“Il viaggio nel cuore di Francesco”, come l’ha definito il regista, punta a sviscerare tutte le tappe della sua carriera calcistica lasciando forse poco spazio ai momenti più personali della vita del calciatore che avrebbero potuto essere raccontati dalla viva voce di amici o parenti. Non ci sono testimonianze di altre persone, tutto viene lasciato alle immagini e alla voce di Francesco che rimane dietro le quinte a narrare se non per apparire in qualche scena da solo nell’enormità dello stadio olimpico vuoto.
Quello che emerge dal taglio che Infascelli ha voluto dare al lavoro è la continua oscillazione, nella vita del calciatore, tra l’essere un uomo semplice e l’essere invece una celebrità. “Io non posso fermarmi a guardare i monumenti di Roma perché sono diventato anche io un monumento”. Non c’è frase più riassuntiva di questa che possa riassumere l’iconicità di Francesco Totti e, per esteso, l’iconicità della figura del calciatore. È questo il centro del documentario: un’iconicità che aumenta, successo dopo successo, dando vita ad un parallelismo sempre più evidente, quello che ci può essere tra il mondo del calcio e quello del cinema.
Totti stesso ammette che uno dei suoi ruoli in campo era quello di far divertire la gente, di intrattenerla, di farla sognare. E se è noto il paragone tra le antiche arene gladiatorie e i campi da calcio con i calciatori intesi come nuovi gladiatori da amare ed emulare, forse è altrettanto giusto provare a costruire un altro paragone: quello tra l’attore e il calciatore. Così come l’attore svolge il suo compito di “entertainer” mettendo in mostra le sue capacità dietro la macchina da presa, allo stesso modo il calciatore fa sognare con i suoi piedi, con le magie che riesce a fare con il pallone. E fuori dal loro terreno di gioco sono entrambi risucchiati da un vortice più grande di loro che li “condanna” a non essere più persone ma personaggi, divi, celebrità. Che ci si sentano o meno, questo non è importante.
È una dicotomia fisiologica che Infascelli, nel caso in questione, fa vedere molto bene. Un dualismo che durerà per sempre ma che però dal 28 maggio 2017 ha subito sicuramente un’evoluzione: l’addio definitivo dal campo ha infatti sancito la consacrazione dell’uomo Francesco Totti al simbolo Totti rendendolo quasi un’entità più di quanto non lo fosse stato fino a quel momento. Quel giorno è morta Roma ma il giorno dopo si è risvegliata con un ottavo re: Francesco.