Men, la recensione: l’orrore si fa fallico

La filmografia di Alex Garland da sempre ruota attorno a temi come il rapporto tra l’uomo e la natura, l’universale e l’antropico e studia i risultati inediti di queste interazioni misteriose, sorprendenti, spesso terrificanti. Nel suo ultimo film, Men (trailer), distribuito dall’A24, il regista inglese stavolta non affida l’elemento straniante a creature aliene, bensì all’uomo stesso, nella sua accezione di genere maschile.

Harper (Jessie Buckley) è una giovane donna che ha perso il marito James (Paapa Essiedu), presumibilmente suicidatosi dopo la sua confessione di volersi separare. Cercando di metabolizzare il lutto decide di ritirarsi in un cottage nelle campagne inglesi. Qui inizia a subire diverse microaggressioni, dall’inquietante atteggiamento del premuroso affittuario Geoffrey, fino alla presenza di uno sconosciuto nudo che la osserva dal giardino (interpretati, come tutti i gli altri personaggi maschili, da Rory Kinnear).

Queste molestie non fanno altro che peggiorare lo stato mentale della protagonista, la quale – come Ava di Ex Machina e Lena di Annientamento – si trova in un ambiente isolato, lontano dai pochi affetti e indifesa: il suo punto di vista risulta progressivamente alterato dal trauma, rivissuto attraverso dei flashback, virando verso il paranoico, tanto da far mettere in discussione allo spettatore la sua stessa veridicità. Se la solitudine umana è tema di analisi frequente nell’opera di Garland (si veda il romanzo e poi il film di The Beach, o 28 giorni dopo di cui è sceneggiatore), ancora più interessanti risultano invece gli effetti di interazione tra l’isolamento umano e l’interazione con la natura, di cui il soggetto diviene parte integrante.

Quest’organicità uomo-natura è un ritorno al primordiale, all’idea di genesi che è anch’essa centrale nell’opera di Garland, dalla creazione dell’intelligenza artificiale che rende l’uomo un dio, agli ibridi di umano, alieno e vegetale che producono un’identità sfumata, fino al suo significato biblico. Tra le prime azioni che compie Harper nel nuovo paradiso terrestre di Cotson c’è infatti quella di cogliere una mela da un albero, venendo anche redarguita scherzosamente da Geoffrey: il gesto chiaramente porta con sé una serie di significati legati a colpa e punizione, scaturiti dalla volontà di libera scelta della donna. Come una nuova Eva, Harper si macchia del peccato originale, simbolo della differenza ancestrale tra uomo e donna e uomo e Dio, non solo cogliendo il frutto fisicamente, ma anche metaforicamente trasgredendo alle imposizioni patriarcali e scegliendo di rompere volutamente la relazione con l’ex marito, decisione di cui appunto sta già scontando le implicazioni psicologiche del trauma.


Harper colpevole è quindi punita, condannata a vivere nel lutto, circondata da figure che non fanno altro che minimizzare le sue ansie, alimentare le sue paure e il suo senso di colpa e Garland, in questo modo, intende forse dare il suo punto di vista su cosa significa essere donna nel patriarcato. Queste figure – che metaforicamente possiedono lo stesso volto – rappresentano poi di base un microuniverso, c’è l’ufficiale di polizia che indica il potere delle forze dell’ordine e delle istituzioni politiche; il vicario, rappresentando l’istituzione ecclesiastica; poi c’è il bambino, espressione dell’Es, del germe e infine l’uomo comune, forse il più pericoloso perché li racchiude tutti.

Il simbolismo legato alla Genesi prende le forme del generare fisico nell’allucinogena sequenza finale che si dirama in un concentrato denso di metafore ma molto confusionario. Lo stalker nudo si trasforma in una creatura vegetale mitologica, l’Uomo Verde del folklore babilonese e celto, simbolo di fertilità continuando a mutare l’aspetto fino a partorire “con dolore” (una delle punizioni inflitta da Dio a Eva) una catena di nascite deformi le cui aberrazioni ricordano le ferite del cadavere di James. Questa figura partoriente ricorda la figura aliena nel faro di Annientamento, una creatura sconosciuta che rispecchiava in quell’occasione i movimenti della protagonista Lena, portando ad un momento di avvicinamento tra esistenze apparentemente estranee. Anche qui, in qualche modo, c’è una sorta di avvicinamento disperato, di connessione che sembra essere esplicitato nell’ultima infelice battuta del nuovamente nato James.

Non è immediatamente chiara l’operazione di Garland, il quale sembra voler denunciare il maschilismo di cui è intriso l’universo, quasi volendo riportare il tutto però a una questione di essenzialismo biologico, dove l’uomo è villain e oppressore in quanto uomo e la donna è vittima. Ciò risulta superficiale e banalizza anche il discorso sull’architettura sociale e politica su cui si innesta l’oppressione femminile: l’incubo delle donne sono gli uomini, sembra dirci, senza però aggiungere molto, quasi in una tacita rassegnazione alla differenza di genere che crea mostri pericolosamente identici tra loro. Il lungometraggio si presenta quindi ricco di simbolismi che però si fermano in superficie, dando sì adito a scene spettacolari e di alta tensione che costituiscono però un’occasione persa nel denunciare una condizione attraverso un genere da sempre utilizzato in maniera politica.

In questo Men rientra pienamente in quel filone di film post-MeToo troppo interessati al voler trasmettere un ideale perdendo però di vista l’aspetto fondamentale della messa in scena e dei mezzi per veicolarlo, delineando delle eroine dalla dubbia posizione attiva, elemento che condivide con Last Night in Soho (di cui però non condivide la stessa empatia) e con il più recente Fresh che si propone di ribaltare le posizioni di genere risultando però in un ritorno all’archetipo.

Il film, nelle sale italiane a partire dal 24 agosto, nonostante rimanga fedele all’immaginario della filmografia di Garland, risulta un tentativo mal riuscito di entrare in una tendenza cinematografica senza però avere chiara la direzione da intraprendere.

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