Una voce di donna matura rompe il silenzio di un funerale intonando i versi di una canzone della tradizione bretone, così ha inizio Le Gang des Bois du Temple, film scritto e diretto dal regista franco-algerino Rabah Ameur-Zaïmeche e presentato al Med Film Festival di Roma. Il film presenta sin dalle prime inquadrature un tono drammatico che pervade l’intero racconto creando delle atmosfere tendenti al tragico. Nonostante il nobile intento la narrazione risulta, però, piuttosto piatta e lascia poco spazio per l’investimento emotivo dello spettatore.
Il film presenta due fili narrativi che all’inizio non sembrano toccarsi ma che poi si intrecceranno sul finale: il lutto di un ex-cecchino che ha appena perso la madre e il colpo di una banda di rapinatori a un veicolo che trasporta un’ingente somma di denaro e dei documenti top secret appartenenti a un ricco principe arabo. Se prima infatti l’ex-cecchino assume ai nostri occhi il ruolo di ignaro spettatore degli atti criminali della banda, dopo la riuscita del colpo e l’inevitabile ritorsione del principe arabo su ognuno dei rapinatori, l’uomo diventa non solo protagonista indiscusso del film ma anche una sorta di deus ex machina che porrà fine alla vendetta del principe.
L’eco tragico della storia è fortissimo, a partire dal sistema dei personaggi, in cui troviamo un eroe protagonista, un coro composto dai rapinatori e un antagonista forte, fino all’estrema sintesi dei dialoghi (le scene del protagonista ne sono spesso prive). In più tutti i personaggi sembrano essere vittime di una cecità che li rende nudi ed esposti a qualsiasi attacco, come se su di loro operasse una forza esterna, quella del dramma. Tuttavia questi elementi non bastano a mettere in risalto gli eventi né a far affezionare lo spettatore ai personaggi, la cui caratterizzazione risulta molto superficiale e approssimativa.
Le interpretazioni, d’altra parte, non lasciano delusi, soprattutto quella del protagonista (Régis Laroche) e di uno dei rapinatori (Philippe Petit). Gli attori non strafanno, aderiscono con facilità ai personaggi senza aggiungere troppo pathos, aspetto che da un lato rende tutto molto realistico, dall’altro rischia di appiattire ulteriormente una narrazione già di per sé poco efficace.
Rabah Ameur-Zaïmeche costruisce le fondamenta di una tragedia contemporanea potentissima ma poi si dimentica di erigerla e darle un nome (il titolo stesso del film banalizza ampiamente il contenuto del film). A salvarlo sono però delle interpretazioni non da poco, una struttura narrativa solida e la sua abilità dietro alla macchina da presa, che ritroviamo soprattutto nella scena del furto e del ballo scatenato del principe in una discoteca. Purtroppo la grande eredità che il cinema riceve dal teatro o dalla tradizione letteraria di ogni paese non basta se non va di pari passo con un interesse verso la realtà umana e la sua potenza narrativa quando viene amplificata all’interno di un film.